Per anni abbiamo creduto che per avvicinare due popoli, la cultura potesse essere un fattore dirimente. Invece avessimo tenuto come nord della nostra bussola la consapevolezza che sono gli scambi a rendere mutualmente interdipendenti le nazioni, e che in tali scambi la cultura svolge un ruolo di ulteriore consolidamento, piuttosto che iniziative non-profit rivolte alle reciproche aristocrazie, avremmo probabilmente veicolato gli sforzi di Paesi diversamente
Per decenni, nella nostra parte di mondo “occidentale”, l’idea che favorire gli scambi culturali tra Paesi sia una modalità per incrementarne le relazioni e, di conseguenza, di ridurre le possibilità di conflitto, ha trovato sempre più consensi.
Questo ha spinto molti decisori politici a ritenere che la cultura fosse uno dei numerosi strumenti “di relazione diplomatica” tra Paesi diversi, soprattutto a seguito dell’affermazione del soft-power. Queste ipotesi, oggi, devono essere profondamente riviste, o meglio, devono essere comprese nella loro più articolata complessità. Perché se è vero, e lo è, che la cultura, e lo scambio culturale, creano indubbiamente “relazioni”, non è altrettanto vero che la cultura possa essere utilizzata come strumento deterrente di crisi e conflitti.
Uno dei primi ad aver approfondito il rapporto tra economia e cultura, noto come Fernando Pessoa, ha individuato, negli scambi commerciali la principale leva di creazione di relazione tra popoli, osservando come da tali scambi commerciali si creassero poi le opportunità di ibridazioni culturali. Un altro studioso, noto come Arnold Hauser, lasciava intendere questa medesima prospettiva quando parlava delle prime commistioni di stili artistici e decorativi nel mondo classico.
Allora forse è bene ribadirlo: ciò che avvicina i popoli non è la cultura. Ciò che avvicina i popoli sono gli scambi commerciali. E non c’è bisogno di scomodare grandi pensatori: la prova l’abbiamo proprio sotto i nostri occhi. È quanto sta accadendo tra Europa e Russia, con la prima che dichiara di voler tagliare ogni tipo di rapporto pur non potendo però rinunciare ai rapporti commerciali. Questo non significa che la cultura sia “superflua” o che il ruolo degli scambi culturali sia stato sopravvalutato. Significa piuttosto che tale ruolo sia stato semplicemente frainteso.
La cultura non avvicina. La cultura può “consolidare”. Questa evidenza, che le immagini, i gesti, le comunicazioni di questi giorni dimostrano con estrema concretezza, non può lasciare indifferenti coloro che si occupano di cultura. Perché la credenza che la cultura avvicini i popoli è una delle numerosissime ideologie che da ormai quasi mezzo secolo guidano non solo l’agire di professionisti, ma anche di decisori politici.
È forse giunto il momento di fare una sorta di spending review delle nostre convinzioni, e valutare quali di queste ridurre, o eliminare. Bisogna in qualche modo comprendere che, per decenni, abbiamo “idealizzato” la cultura, come si fa con un amore adolescenziale e che bisogna invece amare la cultura per quello che è, con i propri limiti, e le proprie opportunità.
L’elenco delle posizioni ideologiche legate alla cultura, soprattutto nel nostro Paese, è consistente come uno di quei mega-faldoni impolverati che non apriamo mai per paura di doverci trovare a gestire una mole di “cose con cui fare i conti” che non abbiamo tempo o voglia di regolare.
E proprio come in uno di quei mega-faldoni, però, ci sono cose che possiamo tralasciare senza troppi indugi, ma ci sono anche temi che prima o poi ritorneranno, e per i quali, prima o poi, dovremo pagare il conto. Perché per quanto il mondo stia lì a ripetersi, terrorizzato dalla nostra storia del novecento, che ormai le ideologie son morte, molte di esse resistono nella nostra vita, e che ci piaccia o no, comportano azioni concrete.
Facciamo un esempio.
Come detto, per anni abbiamo creduto che per avvicinare due popoli, la cultura potesse essere un fattore dirimente. Di conseguenza, Paesi, Istituzioni e altre organizzazioni della società civile hanno investito tempo, risorse economiche ed energie per l’organizzazione di incontri, di tavole rotonde, di convegni, di red-carpet, su temi che potessero avvicinare le differenti sensibilità delle élites dei rispettivi Paesi.
Se invece avessimo tenuto come nord della nostra bussola la consapevolezza che sono gli scambi a rendere mutualmente interdipendenti le nazioni, e che in tali scambi la cultura svolge un ruolo di ulteriore consolidamento, piuttosto che iniziative non-profit rivolte alle reciproche aristocrazie, avremmo probabilmente veicolato gli sforzi di Paesi, Istituzioni e altre organizzazioni della società civile verso la costruzione di imprese culturali e creative a capitale condiviso, alla realizzazione di progetti economici organizzati in modo congiunto da soggetti privati delle nazioni coinvolte.
Così facendo, probabilmente, avremmo forse risparmiato qualcosa sui buffet, e avremmo creato oltre che delle piccole economie, anche un rapporto culturale più forte, perché gli interessi reciproci sono un elemento che lega anche persone che non si piacciono per niente. Ma è solo un esempio. Un esempio che però ci deve servire a riflettere su ciò che diamo per scontato.
Perché la cultura, in fondo, serve proprio a questo, a capire meglio il mondo che ci circonda, e a riconoscere quando la vita ci dimostra che avevamo torto.