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Orsini, Zelensky e l’ala dura dei “pacefondai”. Il commento di Cazzola

È veramente singolare caricare le responsabilità di un conflitto armato sulla nazione che, aggredita, rifiuta di arrendersi ad un nemico oggettivamente più potente e agguerrito. Se la logica è questa dobbiamo riscrivere la storia. Il commento di Giuliano Cazzola

Ecco uno dei nuovi Cavalieri dell’Apocalisse che, grazie alla guerra in Ucraina, è divenuto un personaggio televisivo occupando (per “fare notizia”) il ruolo dell’uomo che morde il cane in sostituzione dei più accaniti no vax, i quali, se non si riconvertono nel ruolo di filo-putiniani o di “pacefondai”, finiranno presto nel dimenticatoio. Il nuovo Cavaliere si chiama Alessandro Orsini, docente alla Luiss e direttore dell’Osservatorio della sicurezza internazionale (un incarico da cui ha tratto la convinzione che, nei conflitti internazionali, la migliore sicurezza sta nella resa).

Per quanto possa essere ritenuta (almeno per chi scrive) abominevole la posizione che sta diffondendo nelle fumerie d’oppio dei talk show televisivi, al professore occorre riconoscere un merito: quello di ribadire – senza reticenze e richiami alla “complessità” della situazione di quella delicata area del mondo – ciò che in tanti pensano; ovvero che questo ex attore/comico/ballerino eletto casualmente presidente dell’Ucraina (come se fosse un alter ego del nostro Grillo o di uno dei suoi accolti) si sta rivelando un gran rompiscatole, che si è montato la testa, che è tanto arrogante da non essersi arreso alla prima salva di cannone, magari accettando quel “passaggio” offerto dagli americani (anch’essi poco disposti ad impegnarsi sul serio), portandosi, se del caso, appresso un bel po’ di valuta pregiata prelevata dalle riserve della Banca Centrale del suo Paese, allo scopo di garantirsi la pensione.

“Avevo un’ammirazione sconfinata per Zelensky, era una sorta di supereroe per me”, ha dichiarato Orsini riferendosi al presidente ucraino. “Ma la mia percezione adesso sta cambiando. Se Zelensky diventa un ostacolo alla pace, per me deve essere abbandonato. Zelensky preferisce la terza guerra mondiale pur di non rimanere solo contro la Russia. Sta assumendo una postura che non mi piace, lo vedo come un pericolo per la pace”, ha aggiunto il professore. “Zelensky va isolato, come Boris Johnson: il premier britannico è il più guerrafondaio dei leader europeisti, l’Unione Europea si sta facendo guidare da Johnson, che è stato messo lì per fare la Brexit”.

Non intendiamo domandarci chi sia stato “a mettere lì” il premier di Sua Maestà Britannica; a noi pareva che fosse stato il popolo in una libera elezione. Ma il personaggio non ci piace, proprio perché protagonista della Brexit. In verità – Orsini dovrebbe saperlo – la Gran Bretagna era stata indicata come potenza garante dell’indipendenza dell’Ucraina, all’interno dei suoi confini, nel Memorandum di Budapest del 1994, sottoscritto da tutte le grandi potenze, dopo l’adesione dell’Ucraina stessa al Patto di non proliferazione delle armi nucleari e alla conseguente restituzione delle testate ereditate dopo l’implosione dell’Urss (per la cronaca: a chi dice che l’Impero sovietico è stato umiliato si deve ricordare che hanno fatto tutto da soli sotto lo sguardo attonito degli Occidentali).

L’ineffabile Orsini appartiene all’ala dura dei “pacefondai”: quelli che ragionano in termini di realpolitik (de noantri); discendenti diretti di coloro che negli anni ’30 del secolo scorso non volevano “morire per Danzica”, nonché di quanti, durante la guerra fredda e il c.d. equilibrio del terrore andavano in giro scandendo lo slogan “meglio rossi che morti”.

Oggi, a mettere in pericolo la pace non sono più gli aggressori, ma gli aggrediti che osano difendersi. Poi ci sono le “anime belle” che predicano il disarmo quando i nemici si presentano armati fino ai denti, che teorizzano la non violenza mentre piovono i missili e le bombe sulle città, che reclamano soluzioni diplomatiche con la stessa intensità con la quale una tribù aborigena esegue una danza rituale per evocare la pioggia. E che, ovviamente, si commuovono davanti alle vittime civili, all’esodo di centinaia di migliaia di persone che fuggono spesso senza una meta sicura.

Ma di tutto questo incolpano quel testardo di Zelensky che “non vuole rimanere solo contro la Russia”. Eppure la feroce dinamica delle ostilità è lì a dimostrare che, se possibile, sarà proprio l’eroica resistenza degli ucraini (colpevoli e puniti – secondo il Patriarca Kirill – di imporre le manifestazioni del gay pride nel Donbass) a portare Putin a un negoziato. Una resistenza che ci ha aperto gli occhi, ci ha dato tempo di stare all’erta e di cambiare, in chiave europea, la politica della difesa, proprio per garantirci una pace nella sicurezza, ora sconvolta dal gerarca russo.

Ma è veramente singolare caricare le responsabilità di un conflitto armato sulla nazione che, aggredita, rifiuta di arrendersi ad un nemico oggettivamente più potente e agguerrito. Se la logica è questa dobbiamo riscrivere la storia. Senza andare troppo indietro ripassiamo le vicende del secolo scorso. La Grande Guerra: se la piccola Serbia avesse accettato, dopo i fatti di Sarajevo, le condizioni capestro (più o meno dello stesso tenore che Putin pretende dall’Ucraina) poste dall’Impero austriaco nel suo ultimatum, forse avremmo evitato un conflitto di dimensioni mondiali come non si era mai visto nella storia dell’umanità.

E Winston Churchill quando, nel 1940, prometteva ai suoi concittadini ‘’lacrime, sangue, sudore e fatica’’ non era neppure sicuro di poter disporre di un esercito visto che il grosso delle truppe era imbottigliato in Francia sulle spiagge di Dunkerque e tutto l’establishment del suo partito lo incitava a trattare con Hitler che allora sembrava invincibile.

Ma parliamo pure di Stalin. Quando nel giugno del 1941 le Armate tedesche scatenarono, con l’Operazione Barbarossa, una offensiva contro l’Urss su di un fronte di quasi tremila km e in sei mesi penetrarono nel territorio russo per più di 1000 km, perché il Piccolo Padre non chiese di arrendersi, ma decise di resistere impegnando il suo Paese in una guerra spietata con di 20 milioni di morti in una terra devastata dalla ferocia del nemico?

Non possiamo, in conclusione, dimenticare la guerra del Vietnam: una popolazione che aveva combattuto contro i giapponesi durante la seconda guerra mondiale; poi aveva sconfitto militarmente la Francia (di cui l’Indocina era una colonia). Divisa in due Stati, dopo aver raggiunto l’indipendenza, i vietnamiti avevano ingaggiato una lotta di liberazione e di riunificazione contro il Paese più potente del mondo: gli Usa. Se O Chi Minh (lo zio O come si diceva allora) avesse seguito la linea del prof. Alessandro Orsini, quel Paese si sarebbe risparmiato decenni di guerre, i bombardamenti al napalm, la distruzione sistematica delle foreste tropicali e delle città. E a Salvador Allende chi glielo face fare nell’11 settembre 1973 di imbracciare il mitra che gli aveva regalato Fidel Castro e farsi ammazzare per denunciare al mondo la responsabilità di quanti hanno la forza ma non la ragione? Certo in ognuna di queste tragedie esisteva una “complessità” (ce lo ricorda la “filosofa” Donatella Di Cesare, Amazzone dell’Apocalisse) che non consente di separare in maniera netta il bene dal male. Ma arrivano momenti nella vita delle persone e dei popoli, al verificarsi dei quali si deve essere pronti e disposti a scegliere da quale parte stare.



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