Skip to main content

Il Padrino, capolavoro tra efferatezze e poesia

Il 24 marzo 1972 usciva in Italia “Il padrino” (“The Godfather”) di Francis Ford Coppola, tratto dal noto romanzo di Mario Puzo (anche sceneggiatore). Grazie alla bravura di attori quali Marlon Brando e Al Pacino il mafioso si trasformava in un eroe “positivo”. Lo “rivediamo” insieme allo storico del cinema Eusebio Ciccotti

Per la prima volta la mafia veniva raccontata con serietà storica e antropologica. Per la prima volta l’aspetto umano del mafioso lo rendeva un eroe “positivo”. Scene di efferata violenza si alternavano a momenti di poesia sconquassando la psiche dello spettatore, gareggiando in perfezione stilistica. Questo fu lo choc sugli schermi per Il padrino (The Godfather, 1972) di Francis Ford Coppola, sceneggiato insieme a Mario Puzo, dal noto omonimo romanzo di questi, pubblicato nel 1969.

Tutti ricordano l’incipit con il siciliano Bonasera (il curiale Salvatore Corsitto) che chiede a don Vito Corleone (lo squadrato e riflessivo Marlon Brando) di uccidere due giovani americani rei di aver disonorato sua figlia. Vito gli rimprovera il suo essersi tenuto sempre neutro, il non aver accettato la protezione in passato e ora «mi chiedi di uccidere due persone e non mi chiami neanche “Padrino”». Bonasera capisce che deve sottomettersi, che se vuole una cortesia prima o poi «ti verrà chiesta indietro». Bonasera capisce, chiama “Padrino” don Vito, si inchina e gli bacia la mano, come rito di affiliazione e accettazione di sottomissione. La scena è tutta in penombra, nello studio di don Vito, con testimoni i suoi collaboratori più stretti. Si sta celebrando, in quel giorno del 1946, nell’ampio giardino, il matrimonio di sua figlia.

Il tono semibuio dell’interno è giustificato, oggettivamente, dalla luce abbagliante di una giornata estiva.  Ma in effetti, Francis Ford Coppola ˗ come ha attentamente notato Antonio Monda ˗, sotto-espone la fotografia, ossia aumenta le tonalità scure, per ragioni semantiche. Coppola chiede al direttore della fotografia, Gordon Willis, di evitare il riflesso delle luci interne sulle pupille dei protagonisti, tale da rendere i volti più drammatici, petrosi, senza emozioni.

La simpatia dello spettatore verso il “mafioso” in The Godfather scatta quando il più giovane dei figli, Michael (Al Pacino, killer filosofo dal volto da laureato), tornato decorato dalla guerra e fidanzato con May (la diafana Diane Keaton), estraneo alle vicende criminose della famiglia, è costretto a prenderne parte. In realtà don Vito intendeva tenerlo «fuori dagli affari di famiglia»; ma quando questi viene colpito quasi a morte dalle rivali famiglie mafiose di New York, il giovane Michael si ritrova al centro dei fatti criminosi.

Per lui tutto inizia quando, casualmente, va in ospedale a far visita al padre, lì ricoverato dopo l’attentato. Stranamente l’ospedale è deserto, tutto il personale è sparito. I pasti degli infermieri sono stati lasciati frettolosamente a metà nei piatti (una delle figure retoriche predilette da Coppola è la sineddoche). La polizia posta di sorveglianza non c’è. Michael, pur non essendo un mafioso, ma un ufficiale decorato, capisce che il malato è stato lasciato intenzionalmente solo. All’unica infermiera presente chiede di aiutarlo: «Lei sa chi è mio padre. Stanno venendo per ucciderlo. Per cortesia, mi aiuti a portarlo in un’altra stanza». Michael e l’infermiera spingono il letto, con i flaconi delle flebo attaccate al paziente, attraverso un corridoio sino ad entrare in uno stretto disimpegno.

Poi, con un conoscente del padre, il fioraio di quartiere venuto trovare il moribondo, recando un mazzo di fiori, viene mandato da Michael sugli scalini dell’ospedale, davanti al portoncino d’ingresso. Poi, nascosto il padre, Michael lo raggiunge e lo mette in posa da mafioso: gli strappa il mazzo di fiori dalle mani; gli alza il bavero del cappotto, gli fa infilare la mano tra i bottoni del cappotto chiuso, a simulare una pistola che non c’è. Michael, accanto, fa lo stesso. È una lezione di regia vera e propria. Pochi secondi dopo arriva il commando dei mafiosi facendo stridere gli penumatici dell’auto. Vedono i due, sulle scalette dell’ospedale, che sbarrano l’entrata. Li scambiano per uomini armati e vanno via. L’intera sequenza è la prima superba prova, nell’intera trilogia (Il padrino II, 1974 e il Padrino III, 1990), di una serie di scene indimenticabili che Al Pacino consegnerà alla memoria dello spettatore.

Eccoci alla metamorfosi di Michael, da giovane eroe di guerra in omicida, per “salvaguardare” la vita del padre e “punire” la polizia corrotta: l’uccisione, nel ristorante, del mafioso Sollozzo (l’untuoso Al Lettieri) e del capitano di polizia McCluskey (la faccia da violento e vigliacco di Sterling Hayden è naturale), che aveva avallato l’attentato a don Vito e tentato di finirlo in ospedale.

La scena, costruita con ellittica suspense, ancora oggi è di forte impatto. Michael va alla toilette lasciando i due al tavolo, dopo esser stato perquisito in mezzo alle gambe da Sollozzo. Nella toilette cerca affannosamente, dietro lo sciacquone, la pistola, come da piano, ma pare non la trovi, anche se poi vediamo, per due secondi, un involto scendere tra le sue mani e la parete, dietro il tubo dello sciacquone. Torna al tavolo. È teso. Si siede quasi inclinato e malfermo, dà l’impressione di non poter portare a termine il piano vendicativo. Questo pensa lo spettatore, Poi, come un serpente fintamente addormentato, con il primo piano di Michael con gli occhi fissi sui due, scatta: è con la pistola in pugno. Fa fuoco prima su Sollozzo e poi sul capitano. Nel centro della fronte. Di entrambi. Foro rosso e sangue che cola.

Ma Coppola è altresì maestro di poesia. Rivedetevi il dovuto corteggiamento, secondo la tradizione del sud Italia, di Michael per Apollonia, in Sicilia, dove egli è riparato, dopo il doppio omicidio. Oppure il corteo nuziale, ripreso in campo lungo, tra le case del paese, lungo il ponte di pietra, un nastro bianco di innocenza tra una serie di delitti. Per tacere della cura del costume (il velo bianco agganciato sui capelli di Apollonia) o della ineccepibile direzione delle comparse durante la medesima processione nuziale. Una ricostruzione filologica delle tradizioni popolari sin nei dettagli: la scena si conclude con la celebrazione del sacramento in latino.

Coppola e Puzo sono imbattibili nel legare insieme, direi fondere, gli opposti della vita. Fede cristiana e peccato mortale; nascita e massacro; bene e male; salvezza e inferno. Durante il battesimo del suo nipotino, il figlio di sua sorella Connie e suo marito Carlo Rizzi (che la picchia spesso), Michael fa giustiziare, dai suoi uomini, tutti gli altri capifamiglia rivali di New York, incluso Tessio (il legnoso e riflessivo Abe Vigoda) ex fedele di don Vito, poi passato al nemico. I brani del battesimo, in latino, e il Credo, che Michael recita in chiesa, ripetendo “credo” sono montati in alternato alle efferate esecuzioni, inclusa quella terribile del proiettile, attraverso la lente frantumata degli occhiali, finito nell’occhio di Moe Greene (il bravo bullo Alex Rocco).

Recentemente, in un articolo pubblicato sul sito Culture della BBC (14 marzo 2022), Nicholas Barber, si opponeva, con ragione, a una lettura esageratamente “femminista” del film sostenendo che «non è corretto affermare che le donne siano ignorate» da Coppola.  In effetti, il film inizia, come ricorda Barber, con la storia di una ragazza offesa (la figlia di Bonasera). Aggiungerei altre notazioni non di minor importanza: alla giovane sposa Apollonia (Simonetta Stefanelli) Michael dedica tempo insegnandole a guidare l’autovettura (siamo nel 1947!); Santino (l’eccellente esagitato James Caan) difende sua sorella quando è picchiata dal marito Carlo; l’infermiera poteva fuggire o poteva rifiutarsi di aiutare Michael nel salvare don Vito; Kay (Diane Keaton), innamorata persa di Michael, non vede come quelle persone vivano, ma prenderà coscienza in Il padrino II. Considerata la famiglia Corleone di impostazione patriarcale, aggravata dal contesto mafioso, e il periodo storico, non ci pare, dunque, che la sceneggiatura affidi ai personaggi femminili ruoli di donne sottomesse e/o passive.

Giuristi, giudici, educatori, sociologi e psicologi si chiedono, da anni, se un film, dalla regia ineccepibile, con uno script innovativo, una cura perfetta della ambientazione storico-sociologica, una strumentazione raffinata nel segno d’una colonna post-romantica (Nino Rota), per tacere della somma bravura degli attori (Marlon Brando, Al Pacino, Diane Keaton, Robert Duvall, James Caan, Al Lettieri, e altri), abbia diritto di trasformare degli assassini in eroi “positivi”. Per tale ragione la visione di capolavori che possono suggerire ammirazione, tra gli adolescenti, anche negli aspetti eticamente negativi, va guidata da esperti educatori. Evitata la superficiale lettura e le facili imitazioni emotive, segnato il discrimine tra realtà e fiction, tra diritto e reato, rimane l’arte del cinema. Come in The Godfather.

(Foto: Godfather fandom)


×

Iscriviti alla newsletter