Mediare con la Cina, inviare altre armi, costringere Putin al cessate il fuoco? Non è facile uscire dallo stallo ucraino. Si può provare però a evitare il peggio. Il commento del generale Mario Arpino
Stiamo quasi alla fine di marzo, mese piuttosto movimentato. Il tempo passa veloce, ed in Ucraina il cerchio dell’assedio dei corazzati russi continua lentamente a stringersi. Tra le macerie dei palazzi semi diroccati, le spietate truppe cecene hanno iniziato la caccia all’uomo, giocando macabramente a rimpiattino tra abili cecchini e motivatissimi difensori.
Ormai la propaganda fa da padrona, la cronaca fa colore ma aiuta assai poco ed il vero quadro generale è sempre più difficile da definirsi. Questo periodo è principalmente caratterizzato da tre “tipologie” di eventi: l’azione di guerra delle truppe russe e la difesa del territorio, le polemiche (a volte con toni accesi) sul tipo di supporto esterno da fornire all’Ucraina ed i vari tentativi di accordi tra le parti che, spesso in termini contradittori, si sviluppano ad ogni livello. Su tutto ciò è ormai calata la nebbia della disinformazione, ed un epilogo, sia pur cercando di interpretare i segnali contrastanti, è assai difficile da prevedere. Eppure, prima o poi un epilogo ci dovrà pur essere.
Le modalità di attacco e di impiego delle forze russe continuano a lasciare perplessi gli esperti militari. Il disegno è sicuramente quello di avanzare e controllare (almeno temporaneamente) il massimo possibile del territorio, anche a ovest. Ma lo stanno facendo male, anche se la massa di acciaio su cingoli con la quale si sono presentati è di gran lunga preponderante.
Eppure, come è stato ripotuto da più parti, il fattore tempo è giudicato importante per il successo militare di cui ha urgente bisogno Vladimir Putin. Tre sono le ipotesi possibili. La prima è che i calcoli siano stati fatti male, sopra tutto per quanto riguarda l’attuale qualità, capacità e volontà di combattere dell’esercito, che di ciò che aveva ai tempi dell’Unione Sovietica ha conservato solo la scarsa flessibilità. Sono venuti meno il numero, la quantità e la qualità dei mezzi a disposizione. Manca quasi del tutto il supporto aereo ravvicinato, e questo può significare che da quando, a causa dei costi del convenzionale, sotto il profilo dottrinale si è fatto affidamento principalmente sul nucleare tattico, gli aerei gli armamenti a disposizione non sono più adatti.
Per l’aviazione scendere di quota significa decimazione a causa delle moderne armi a corto raggio, come infatti sta accadendo per gli elicotteri e per i cingolati, quando attaccati di fianco. I numeri non sono noti, ma si parla di perdite ingenti che influiscono non solo sulla volontà di combattere, ma anche su una già limitata capacità di ripristino.
Altra ipotesi è che Putin, pur negandolo, rendendosi conto della propria debolezza confidi sul sollecito esito dei colloqui di cessazione del fuoco. Fatto questo improbabile , che tuttavia gli consentirebbe almeno di salvare la faccia, visto che cercare di avanzare continuando a distruggere con cannonate e missili tutto ciò che si trova davanti gli sta alienando le già scarse simpatie interne ed esterne.
Così può anche arrivare a un formale ed inutile presidio del territorio, ma nella inusuale situazione di essere un vincitore isolato e perdente. Le iniziali diatribe in Occidente sull’opportunità di continuare o meno a fornire armi letali ai “patrioti” ucraini si sono rapidamente dissolte, rimanendo appannaggio dei professionisti delle marce per la pace, dai quali i Governi ed i principali partiti politici hanno ormai preso le distanze. Perfino in Italia, sebbene con motivazioni diverse. Anche questa terza carta, che per un po’ è stata agitata dalla propaganda di Putin, orma gli si è bruciata tra le dita.
Resta sul tavolo quella degli incontri internazionali e bilaterali, con o senza mediatori. In questo mese di marzo, che ormai volge alla fine, ne abbiamo visto un gran numero: tutti utili, ma nessuno efficace. Diplomazia armata, ed infatti non si è mai smesso di sparare. Molto peggio che a Dayton, ai tempi della Bosnia, quando alternativamente (era accaduto almeno tre volte) si smetteva di parlare e per qualche giorno si ritornava a sparare.
Poi però l’accordo c’é stato. Insoddisfacente fin che si vuole, visto che si è concluso con una compartimentazione di territorio che sarà fonte certa di crisi future, ma che ancora oggi bene o male funziona. Per l’Ucraina, vista la situazione, ci si potrebbe anche accontentare di qualcosa di simile. Ora il presidente Zelensky ha chiesto un colloquio faccia a faccia con il presidente russo, ma Putin nicchia e prima vuol conoscere il dettaglio dell’agenda. E’ ovvio che tutto andrà a vuoto.
C’è attesa invece per il round di colloqui che Israele ha avviato a partire dalla Russia e, soprattutto, per gli sviluppi del lungo colloquio tra il presidente Usa e quello cinese. Pur con qualche inconveniente, una mediazione della Cina potrebbe dimostrarsi davvero la chiave di volta per una durevole composizione del conflitto. Ce ne sarebbero, in realtà, altre due: la prima, improbabile in termini di fattibilità, è un pronunciamento del popolo russo. La seconda, estrema ratio, è innominabile. Non la citiamo per scaramanzia.