Dobbiamo impegnarci maggiormente per capire l’interconnessione delle emergenze, la presenza di autentici lager sulle coste del Mediterraneo destinati proprio alle vittime di altri conflitti che altro non sono che ulteriori pezzi di questa guerra mondiale. Conversazione di Riccardo Cristiano con Padre Camillo Ripamonti, presidente della sezione italiana del Servizio dei Gesuiti ai Rifugiati, il Centro Astalli
Padre Camillo Ripamonti, presidente della sezione italiana del Servizio dei Gesuiti ai Rifugiati, il Centro Astalli, segue da anni il dramma dei profughi ma non sa dire se oggi si possa parlare di un reale cambiamento interiore da parte della popolazione italiana davanti a questo problema che assilla milioni di esseri umani da anni. Il cambiamento, assicura c’è, si percepisce, si vede, si tocca. La questione ucraina è entrata davvero nella vita e nella sensibilità di tanti e molte persone chiamano per mettersi a disposizione, far sapere che esistono spazi, o altre disponibilità. Quanto questo però corrisponda a una nuova consapevolezza è presto per dirlo. Occorrerà tempo per valutare se l’emergenza che ci coinvolge possa aver creato un effetto-paura che ha prodotto un effetto-difesa anche nella difesa dell’altro, o se si è capito che siamo davanti a un nuovo tassello della guerra mondiale combattuta a pezzi di cui parla da tempo papa Francesco e che va compresa nella sua interezza. Il suo ragionamento induce a ritenere che questa consapevolezza si affacci, emerga in alcune reazioni e anche in alcune valutazioni.
Per esempio, la rimozione di un nuovo naufragio nel Mediterraneo – notizia di questi giorni- potrà essere stata causata o poco riferita nel circuito mediatico per la grande emergenza di fatti e notizie sconvolgenti di questi giorni, ma chi ha saputo, chi ha appreso di questo ennesimo naufragio ha dimostrato di rendersi conto che parliamo di effetti analoghi di quella guerra mondiale combattuta a pezzi che in passato risultava loro meno chiaro, meno evidente. Così padre Ripamonti conviene che riflettere sulle rimozioni di ieri, davanti alla catastrofe umanitaria causata da azioni analoghe in Siria, e che non ha trovato disponibilità di fondo in Europa, avrebbe importanza per tutti. Allora la grande questione fu risolta delegandola d’autorità alla Turchia, anche per non fronteggiarla, mentre davanti al disastro afghano si è cominciato ad aprire uno spazio di consapevolezza e coinvolgimento. Ma presto la questione è scemata, anche per altri motivi.
A suo avviso dobbiamo impegnarci maggiormente per capire l’interconnessione delle emergenze, la presenza di autentici lager sulle coste del Mediterraneo destinati proprio alle vittime di altri conflitti che altro non sono che ulteriori pezzi di questa guerra mondiale. Questa consapevolezza è la vera sfida in ore drammatiche, sebbene la tragedia Ucraina sia ancora aperta a vari sviluppi possibili che potrebbero aggravare il quadro d’insieme. Nel mondo globalizzato la comprensione per essere autentica non può non tenere del quadro d’insieme. E la guerra mondiale combattuta a pezzi è un esempio perfetto di schema logico per arrivare alla nuova consapevolezza che oggi ci serve.
Padre Ripamonti in questa conversazione con Formiche.net invita però a non cedere alla tentazione del catastrofismo, ma a leggere la realtà – appunto- nel concatenamento dei fatti. Come abbiamo visto, la guerra in Ucraina ha conseguenze economiche anche su di noi, sulle nostre economie, per vie dei prezzi dei combustibili in modo particolare e delle loro ricadute più ampie: allora dobbiamo sapere che questo può essere vero anche per altre economie già disastrata in Africa, soprattutto per la questione dei cereali che stanno riducendosi drasticamente su quei mercati. Ma questo problema va affrontato nella sua gravità presente e nelle sue gravissime implicazioni future non immaginando necessariamente un’ondata travolgente di profughi dal nord e dal centro dell’Africa. Molto probabilmente si produrrà un effetto “collo di bottiglia”, e le vie di migrazione confermarsi prioritariamente continentali, non necessariamente transcontinentali, cioè verso l’Europa. Ma questo non toglierebbe né la rilevanza del problema né la necessità “politica” di comprendere altre possibili conseguenze se si lasciasse tutto andare da sé.
Venendo all’attuale emergenza, quella ucraina, per padre Ripamonti il flusso, che in Italia è ancora contenuto, è ancora al livello di sfollati, sia come macro-realtà sia come dimensione psicologica di chi è fuggito dalle bombe. Gran parte della popolazione fuggiasca, anziani, donne e bambini, si percepisce come sfollata e si comporta da tale, perché è convinta di essere tale. Così in gran parte si fermano a ridosso del Paese di provenienza, pensando di poter presto fare ritorno alla vita di ieri. Ma se le distruzioni si aggraveranno e proseguiranno nel tempo questo sarà sempre più improbabile.
Anche chi arriva in Italia, sempre anziani, donne e bambini anche in età prescolare, si percepisce come sfollato. Il grosso di loro fa affidamento sulla diaspora già presente nel nostro Paese e percependosi come sfollato non pensa a un processo di integrazione nel nostro contesto sociale, nel nostro Paese. Attende di poter tornare nella propria città, nel piccolo centro d’origine o a Kiev. Questa non è un’anomalia, quasi sempre nella sua esperienza è così. Ma un ritorno a breve diviene sempre più improbabile col passare dei giorni e potrebbe confermarsi impossibile nel prossimo futuro. Così a suo avviso occorre cominciare a pensare in termini non incompatibili con la loro realtà, la loro situazione psicologica attuale, e in termini di prospettiva. Siamo quasi alla fine dell’anno scolastico, dunque si potrebbe pensare per i tanti bambini (circa il 40% degli arrivi di queste settimane) ad un sistema misto. Accorparli alla classi italiane per quelle materie che non hanno bisogno di una buona conoscenza della lingua, come educazione artistica, educazione fisica ed altre materie del genere, e poi altre ore separate che con mediatori culturali ( o nel caso con genitrici o anziani disponibili all’insegnamento) gli consentano di restare in un “meccanismo scolastico di tipo ucraino”. Come se la loro vita non si dovesse spezzare, nella speranza di potersi riprendere domani nel loro Paese. Se questo poi risultasse impossibile, allora ci si dovrà preparare a uno scenario diverso e farsi trovare preparati in vista del nuovo anno scolastico ad avviare politiche di integrazione, con l’ apprendimento linguistico, l’inserimento scolastico.