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La spesa militare, il caos grillino e il Pd. Il caso Conte letto da D’Alimonte

Il politologo sulla difesa, da parte del leader grillino, di uno dei pilastri del Movimento: “Sarebbe Di Maio, che è stato uno dei suoi fondatori, a essere più credibile come difensore dei principi fondativi del vecchio Movimento. Invece in questa pantomima le parti sono rovesciate”

 

Tra crisi di governo e crisi di nervi. Giuseppe Conte, il leader del Movimento 5 Stelle non ci sta e sfida il premier. La posta in gioco è il voto al Def, attraverso cui verrà ratificata la decisione di aumentare la spesa militare in Italia, impiegando il 2% del Pil. Gli screzi, tra i grillini, sono palpabili. Ma fin dove si spingerà il capo dei pentastellati? Per tentare di sciogliere il rebus, Formiche.net ha parlato con Roberto D’Alimonte, politologo e fondatore del Luiss – CISE Centro Italiano di Studi Elettorali.

Il leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, ha detto di aver deciso che sull’incremento delle spese militari fino al 2 per cento del Pil il suo M5S non farà passi indietro. In ballo c’è il voto al Def. Quale sarà, secondo lei, l’atteggiamento dei parlamentari al momento del voto?

Sarà un passaggio difficile per il Movimento che su questo punto, e non solo su questo, è spaccato. Di Maio ha già detto pubblicamente che la posizione di Conte è inaccettabile. All’interno del Movimento, e in particolare all’interno dei gruppi parlamentari, Di Maio ha un peso. Il Movimento di Conte è ancora alla ricerca di una identità diversa dal Movimento di Grillo. È in una fase di grande incertezza, direi di confusione. L’aumento delle spese militari è una di quelle questioni sulle quali si deve decidere da che parte stare. Aderire alla proposta del governo significa abbandonare uno dei pochi riferimenti rimasti alla vecchia identità senza essere riuscito ancora a svilupparne una nuova. Il rischio è quello di perdere vecchi elettori senza conquistarne di nuovi. Il che vuol dire, tra l’altro, anche lasciar spazio a Di Battista. Il futuro del Movimento, e la sfida per la sua leadership tra Conte e Di Maio, si giocheranno anche su questo terreno.

Questa battaglia di Conte ricorda il Movimento dei primordi. È un modo per recuperare il consenso perduto titillando gli istinti che mossero le folle verso il grillismo?

Il paradosso di questa vicenda è che Conte è la figura meno adatta a gestire una battaglia sul terreno delle spese militari e dell’impegno nei confronti della Nato e della Unione europea in nome degli istinti originari del Movimento. L’ex premier è un moderato di stampo democristiano, che si è trovato per caso a fare il premier e ora il capo politico di un Movimento populista che ora fatica a trovare un nuovo profilo più consono alla sua posizione di forza di governo. Sarebbe Di Maio, che è stato uno dei suoi fondatori, a essere più credibile come difensore dei principi fondativi del vecchio Movimento. Invece in questa pantomima le parti sono rovesciate.

Conte dichiara di non voler aprire una crisi di governo. Parallelamente però lancia un messaggio chiaro a Draghi: il partito di maggioranza relativa va ascoltato. Che margini negoziali ci sono su questo fronte, tra il premier e il leader pentastellato?

Non credo proprio che Conte si possa assumere la responsabilità di una crisi di governo in un momento così delicato. Quindi visto che la minaccia della crisi non è credibile, il suo spazio di manovra è limitato. Si troverà un compromesso che possa servire a salvare la faccia.

Enrico Letta si è dimostrato il leader più atlantista e apertamente schierato a difesa del diritto ucraino a (r)esistere. Come si può conciliare la posizione del suo alleato 5 Stelle, a poche settimane dalle amministrative?

Il problema dei rapporti tra Pd e M5S era sul tavolo prima della guerra e lo è ancora di più oggi. Si lega alla questione del nuovo profilo del Movimento e quindi alla risoluzione dei suoi conflitti interni. Come dice lei, ci sono le amministrative a breve ma soprattutto ci sono le politiche tra dodici mesi. Se Pd e Movimento non troveranno un accordo, il centrodestra, con l’attuale sistema elettorale, vincerà a mani basse, sempre che Berlusconi, Salvini e Meloni si alleino.

Giorgia Meloni ha appoggiato la decisione del governo di aumentare la spesa militare. I colonnelli del suo partito, così come la base, concordano. È un passo verso l’ingresso nell’esecutivo?

Non credo. Meloni all’opposizione ci sta bene. La decisione di appoggiare il governo su questo punto è un altro passo verso la legittimazione a governare il Paese dopo le prossime politiche se FdI risulterà il primo partito di una coalizione di centrodestra vincente.

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