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L’Ucraina non si spiega (solo) con l’appeasement

Le conseguenze della decisione di placare Hitler lasciandogli occupare i Sudeti nel 1938 sono solo una delle analogie storiche alle quali si può ricorrere per spiegare la crisi ucraina. Dall’invio di armi alla Spagna (1936-39) alle sanzioni al Giappone (1940), il passato offre numerosi altri esempi. L’importante è usarli come stimoli di riflessioni e non considerarli come ripetizione inevitabile. Riceviamo e pubblichiamo l’articolo di Gregory Alegi, professore di Storia e politica degli Usa all’Università Luiss

La ragione essenziale per non consentire alla Russia di occupare l’Ucraina è non premiare gli attacchi alla sovranità nazionale e all’integrità territoriale. Proprio per questo, da molti mesi storici e analisti evocano il fantasma di Monaco per spiegare che non esistono cedimenti una tantum: l’aggressore interpreta il compromesso come debolezza e sottoscrive l’accordo senza intenzione di rispettarlo. In questo senso, l’invasione dell’Ucraina viene paragonata a quella della Cecoslovacchia nel marzo 1939: l’ultima occasione per fermare un dittatore ed evitare che alzi la posta sino a livelli insostenibili.

Come ogni analogia storica, la crisi cecoslovacca illumina la comprensione dei fenomeni attuali e al tempo stesso la oscura. Le differenze di tempi, luoghi e persone rendono illusoria l’idea di trasferirne di peso l’interpretazione in contesti diversi. Non si tratta solo del fatto che le situazioni storiche non sono mai identiche, né del rischio che la discussione si concentri sul precedente anziché sull’attualità, ma dell’errore che si compie nel ridurre a una sola variabile situazioni complesse che potrebbero paragonarsi ad altri momenti storici. In questo senso, la scelta dell’analogia è cruciale soprattutto perché determina anche la direzione nella quale l’analista intende orientare pubblico e interlocutori.

Per spiegare il concetto possono essere utili alcuni esempi tratti dalla storia del 20° secolo, ciascuno dei quali si può applicare a una fase della crisi ucraina.

Spingere l’Ungheria alla rivolta

La rivolta di Budapest dell’ottobre 1956, repressa nel sangue dall’Urss, spinge a interrogarsi sul rapporto tra parola e azione, o almeno della responsabilità per le conseguenze della propaganda.

La promessa di un intervento statunitense diffusa da Radio Free Europa, l’emittente di propaganda americana, contribuì infatti a spingere gli ungheresi verso un colpo di Stato antisovietico. Facendo leva sul nazionalismo e anticomunismo del Paese, fino a pochi anni prima schierato a fianco di Italia e Germania, gli Usa alimentarono le richieste di libertà e democrazia della popolazione e, in particolare, degli universitari. Questo, insieme al parziale successo delle rivolte dei lavoratori polacchi del giugno 1956, che ottennero riforme economiche e una minor presenza sovietica, sfociò nella proclamazione dei 16 punti contro l’Urss (22 ottobre 1956) e nella manifestazione dei 20mila con richiesta di sovranità ungherese (23 ottobre), ma anche nell’intervento armato sovietico (24). Il parallelismo con i ripetuti appelli di Zelensky agli Usa non è lontano, così come quello con le conseguenze del loro mancato intervento.

Niente armi alla Spagna

La guerra civile che insanguinò la Spagna dal 1936 al 1939 portò le democrazie liberali a decretare il blocco della vendita di armamenti per contenere la crisi. Ciò costrinse il governo repubblicano legittimo ad appoggiarsi sempre più sull’Urss, radicalizzando il conflitto senza impedirne la sconfitta. L’equidistanza in nome di un vero o presunto pacifismo potrebbe avere lo stesso effetto in Ucraina?

Scaturita dalle aspre disuguaglianze sociali di un paese che non si era mai ripreso dalla perdita delle colonie sudamericane, la guerra si era trasformata presto in uno scontro ideologico tra fascisti (con Benito Mussolini e Adolf Hitler schierati a favore degli insorti nazionalisti) e comunisti (che sostenevano la repubblica). Il rifiuto occidentale di aiutare la Spagna a difendersi si trasformò in aiuto indiretto ai golpisti, che non smisero mai di ricevere uomini e mezzi da Italia e Germania, mascherandoli sotto l’esile copertura di un improbabile soccorso volontario contro il comunismo. Dalla sconfitta repubblicana nacquero 40 anni di leggende sull’eroismo repubblicano e, più concretamente, la lunga dittatura franchista.

1941: tutto tranne la guerra

Il sostegno dell’Ucraina tramite la cessione di armi, senza intervento militare, ha un precedente nel sostegno che gli Usa diedero alla Gran Bretagna nel 1940-41, che potrebbe essere invocato per dimostrare la possibilità di un alto coinvolgimento non bellico ma anche il non automatico passaggio allo stato di guerra anche in caso di perdite americane.

Con la sua istintiva avversione nei confronti di Hitler e del nazismo, il presidente Franklin Delano Roosevelt avrebbe voluto schierare gli Stati Uniti contro la Germania fin da subito. Gli legavano le mani i Neutrality Acts, le leggi approvate nel 1935-37 da un Congresso isolazionista per evitare che il paese si trovasse suo malgrado coinvolto in un conflitto altrui, com’era avvenuto per la Prima guerra mondiale. In un rapido crescendo, Roosevelt inventò dunque il cash and carry: gli aiuti militari andavano pagati in contanti (per evitare prestiti difficili da ripagare) e gli acquirenti dovevano trasportarli da sé, (per evitare attacchi ai mercantili Usa). Quando la Gran Bretagna esaurì il denaro, gli Usa cedettero navi militari in cambio di basi all’estero. Esaurita anche questa opzione, Roosevelt inventò il Lend-lease, cioé il prestito di armi e materiali agli alleati, in nome della difesa comune. Per alleviare il compito della Royal Navy, la Us Navy iniziò quindi a scortare i mercantili in Atlantico su distanze sempre maggiori. Finché non successe l’inevitabile: il 31 ottobre 1941 il sommergibile tedesco U-552 affondò il cacciatorpediniere Uss Reuben James, con la morte di cento marinai americani. L’episodio non bastò ad aprire le ostilità contro la Germania. Fu infatti Hitler a dichiarare guerra agli Usa l’11 dicembre 1941, per solidarietà con il Giappone, che quattro giorni prima aveva attaccato Pearl Harbor.

Mettere il Giappone con le spalle al muro

Le sanzioni economiche sono uno strumento consueto con il quale gli Stati Uniti esercitano pressione senza usare la forza militare. Quelle varate da Joe Biden per indurre Vladimir Putin a fare marcia indietro sono molto dolorose, ma chi volesse argomentarne il rischio di effetti contrari a quelli desiderati potrebbe rifarsi al caso giapponese.

Quando il Giappone attaccò la Cina, colpendone con durezza la popolazione civile (basti citare lo “stupro di Nanchino” del 1937), la reazione Usa fu inizialmente assai esitante. L’embargo sulla vendita di rottame metallico indispensabile all’industria giapponese, annunciato il 26 settembre 1940, doveva mettere in ginocchio l’economia e portando il paese al tavolo delle trattative. Ebbe invece l’effetto opposto; nel giro di 24 ore Tokyo aderì all’Asse Roma-Berlino. Il 24 luglio 1941, il Giappone occupò l’Indocina, spingendo gli Usa a congelarne i beni per rendere impossibile le esportazioni, soprattutto di petrolio. Messo con le spalle al muro, il Consiglio imperiale decise di entrare in guerra qualora non fosse stato raggiunto un accordo entro inizio ottobre. Subito dopo andò al governo il generale Hideki Tojo, che ordinò di procedere con i piani operativi e fissò al 25 novembre la data ultima per un accordo.

Conclusioni

La scelta dell’uno o l’altro esempio bellica può tradursi in una limitazione della capacità di analizzare la realtà e di individuare soluzioni applicabili alla situazione odierna e fermare la guerra in corso. Al di là di ogni considerazione sull’accuratezza più o meno forzata di ogni ricostruzione, è ben chiaro il rischio di guardare il dito anziché la luna o di interpretare il passato esito negativo come impossibilità di un esito positivo oggi.

Quali che siano le ragioni dell’una e dell’altra parte, l’unica lezione storica indiscutibile sembra infatti quella che da oltre un secolo la comunità internazionale ha ufficialmente sostituito la guerra con la diplomazia e l’aggressione con il negoziato.

 

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