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Ucraina, ecco perché non possiamo fidarci della Cina

Non ripetiamo l’errore che ci ha portato dritto all’orrore odierno in Ucraina dando credito alle parole melliflue del “buon dittatore”. Non spogliamoci della nostra forza pur di ingraziarci i regimi sanguinari per una falsa promessa di “pace” predatoria. L’appello di Laura Harth

“Puoi aiutarmi a combattere il tuo amico in modo che dopo posso concentrarmi a combattere te?”. È quanto scrive in un tweet Liu Xin, da oltre due decenni giornalista a Cgtn, a conclusione del recente faccia a faccia virtuale tra Joe Biden e Xi Jinping.

Un tweet che segna perfettamente qual è la pista in gioco secondo Pechino. Non la pace né la sicurezza in Ucraina sulla base del principio di inviolabilità territoriale al quale di solito si richiama con ferocia, bensì lo scontro frontale con l’Occidente e ancor di più con quel che rappresenta nell’immaginario collettivo (sebbene non sempre nella prassi): libertà, democrazia, diritti universali. Solito nemico principale (e colpevole di tutti i mali al mondo): gli Stati Uniti. Obiettivo centrale: sciogliere il legame di principio e comune difesa tra l’Unione europea e gli Stati Uniti.

Non è una novità, ma questi caposaldi della politica interna ed estera del Partito comunista cinese sembra ancora ignorato da tanti – troppi – opinionisti, commentatori e politici italiani che guardano con occhi speranzosi al coniglio che Pechino possa tirare fuori dal cilindro per salvarci dall’incubo morale ed economico che rappresenta la “crisi ucraina” come la chiamano in modo conseguente a Pechino.

Prendano nota: non arriverà. Non vi è nessuna ambiguità nelle posizioni e le azioni finora assunte dalla nomenclatura cinese. Dall’astensione alla condanna dell’invasione russa nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite – difesa in nome della “pace” e rivendicando che i 40 Paesi tra contrari e astenuti rappresentino quasi la metà della popolazione mondiale – al voto contrario alla Corte internazionale di Giustizia; dai richiami continui e prima di tutto su Taiwan alla pressione per tenere l’argomento Ucraina fuori dal G20; fino alla sponsorizzazione dei contenuti della propaganda russa attraverso i suoi media e il continuo dito puntato contro gli Stati Uniti (e la Nato) in quanto istigatori della “crisi” durante le conferenze stampa del suo ministero degli Esteri.

No, Pechino non è ambigua. Lo sconforto iniziale provocato da un blitzkrieg russo tutt’altro che riuscito è presto svanito, grazie anche ai numerosi “speriamo nella Cina mediatrice” sospirati da una parte consistente di opinionisti in Occidente. Senza muovere un dito – se non per venire in soccorso al regime di Vladimir Putin e minacciare lo stesso Occidente circa le conseguenze severi nel caso dovesse incombere in sanzioni secondarie – quei sospiri hanno consentito Pechino di riprendersi presto dallo sconforto e perseguire con ancora più forza la sua linea di attacco.

Nel 2013 trapelò un comunicato diffuso all’interno del Partito dal suo Ufficio generale, soprannominato “Documento 9”. Un presagio di quanto sarebbe poi avvenuto sotto la guida di Xi, con lo schieramento dell’intero apparato del Partito per proteggersi dai sette “pericoli” politici, tra cui il costituzionalismo, la società civile, i “valori universali” e il “modello mediatico occidentale”. Invitava inoltre i membri del Partito a rafforzare la loro resistenza all’“infiltrazione” di idee esterne, a rinnovare il loro impegno a lavorare “nella sfera ideologica” e a gestire con rinnovata vigilanza tutte le idee, le istituzioni e le persone ritenute minacciose per il governo unilaterale del Partito.

È un approccio che abbiamo visto prepotentemente all’opera all’interno della Repubblica popolare, nello Xinjiang e a Hong Kong, con le sparizioni forzate di decine di migliaia di dissidenti, giornalisti e avvocati per i diritti umani, ma anche sempre di più all’estero con la caccia attiva – e illegale – agli attivisti e dissidenti fuggiti all’estero.

Nella politica estera la scongiura a tutti i costi dei principi – giustamente – ritenuti letali per il regime autocratico si traduce nella lotta eterna al nemico sopra tutti i nemici: l’Occidente “a traino statunitense”. Un’Occidente che va spaccato, diviso, indebolito.

Ed ecco che lo sconforto iniziale dell’atroce guerra russa contro l’Ucraina presto si traduce in opportunità per Pechino. Una guerra proxy che trova ampia sponda nelle voci di propaganda russa, nelle pedine filo Partito comunista cinese da tempo inseriti nel dibattito pubblico italiano, nell’ammarezza dei pacifisti anti Nato, e nell’antiamericanismo diffuso. Un senso di opportunità che gli porta senza remore ad avanzare la loro proposta per la “pace”, alzando l’asticella persino al di sopra delle richieste di Putin.

Pechino, nelle ripetute parole del suo ministro degli Esteri Wang Yi, propone niente di meno che la riscrittura della sicurezza in Europa: cestinando la Nato e rompendo il legame transatlantico, vorrebbe l’Unione europea in una posizione perfettamente equidistante tra Est e Ovest, tra democrazie e dittature – un mercato economico (il primo al mondo!) senza valori né ambizioni geopolitiche. Questa la proposta di “mediazione” cinese. Un’architettura perfetta per insulare il Partito comunista cinese dai sette “pericoli politici” che muovono un rinnovato asse atlantico come commuovono i dissidenti in patria.

Non cadiamo nella trappola. Non ripetiamo l’errore che ci ha portato dritto all’orrore odierno in Ucraina dando credo alle parole melliflue del “buon dittatore”. Non spogliamoci della nostra forza pur di ringraziarci i regimi sanguinari per una falsa promessa di “pace” predatoria.

Se non perché è giusto, almeno perché conviene: secondo i dati dell’Osservatorio economico del ministero degli Esteri, gli Stati Uniti rappresentano per l’Italia il terzo mercato di esportazione con un valore di 49.439,51 milioni di euro nel 2021, contro importazioni per un valore di 15.810,27 milioni. Nello stesso anno, il valore delle esportazioni italiane verso Pechino fu di 15.690,98 milioni di euro, contro un valore di importazione a beneficio della Repubblica popolare di 38.524,64 milioni. Farsi due conti non guasta in caso di difficoltà a distinguere tra “buoni e cattivi”.

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