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L’Ucraina, l’Occidente che esiste e la democrazia che resiste

Chi, a Mosca come a Pechino, è rimasto sorpreso dalla coesione della risposta non aveva capito il punto di fondo: i Paesi democratici sono diversi e si possono dividere su tante cose proprio perché sono liberi, ma non sul collante fondamentale della democrazia. Il commento dell’ambasciatore Stefano Stefanini

L’invasione russa dell’Ucraina entra in una seconda fase. Il tornante militare è l’arresto delle truppe di Mosca che addirittura subiscono qualche controffensiva ucraina. Non resta che ricorrere a bombardamenti e missili, tanto peggio per i civili. Mariupol docet. Il tornante politico è stata la visita di Joe Biden in Europa che ha messo le carte in tavola. Ha ribadito quanto Stati Uniti e Europa non vogliono: entrare attivamente in guerra contro Mosca. Ha messo a fuoco l’enorme portata strategica del sostegno occidentale a Kiev. Nella guerra di Vladimir Putin, l’Ucraina si gioca il futuro come Stato indipendente e sovrano. L’Europa, specie centrorientale, la sicurezza. L’Occidente la credibilità.

Putin ha portato nelle pianure del Dnepr e sulle coste del Mare di Azov il confronto latente sullo scenario geopolitico di questo scorcio del XXI secolo: fra democrazie e autocrazie. Il braccio di ferro era in corso da tempo sotto i profili ideologico e economico, fra loro complementari. Il banco di prova era rappresentato dalla rispettiva capacità di gestire il rapporto Stato-cittadini nel mondo della globalizzazione. Il capitalismo di Stato della Cina vanta impressionanti risultati di benessere per la popolazione (800 milioni sollevati oltre la soglia della povertà e malnutrizione) e di avanzamento industriale e tecnologico. Il modello autocratico volava sulle ali dei successi di Pechino – per esempio, nel contenere drasticamente gli effetti della pandemia, pur nata a Wuhan – cui si accodavano autocrati di minor taglia e sovranisti nostrani di vario colore. “Autocrati di tutto il mondo unitevi” ha risuonato da Budapest a Brasilia, fino alle scalinate del Campidoglio americano.

Mancava la dimensione bellica. A colmarla ci ha pensato Putin il 24 febbraio scorso. Senza essere provocata in alcun modo, la Russia autocratica ha invaso l’Ucraina democratica. Ha portato la sfida su un piano dove ci sono necessariamente vincitori e vinti e i conti si fanno in tempi rapidi. Su quello di idee, economia, tecnologia, consenso sociale il confronto è senz’altro aspro e senza esclusione di colpi, ma si può gestire con mezzi pacifici: vinca il sistema migliore, c’è gamma di varianti, il tempo sarà giudice. Il Presidente russo ha invece elevato a prova di forza fra autocrazia e democrazia. Un bilancio a caldo, dopo un mese di guerra, va cercato sia sul versante militare che politico.

La Russia annuncia il consolidamento delle operazioni a Est, subito dopo i missili colpiscono a Ovest. Sono segnali contrastanti. Malgrado le ingenti perdite a Mosca continua a non essere chiamata guerra. Forse Putin vuole estrarre la vittoria dal disastro militare, economico e politico. Forse la cerca nell’annessione dell’intero Donbas, essendo quasi riuscito a saldare la Crimea con il territorio già controllato dai separatisti. Molto meno di quanto il Cremlino aveva trionfalmente dichiarato il 23 febbraio scorso – la denazificazione, la riunione di due popoli fratelli, eufemismi per preparare la longa manus di Mosca su Kiev – ma sempre un enorme sacrificio per Volodymyr Zelensky. Non c’è da meravigliarsi che il presidente ucraino chieda pressantemente armi anche “offensive” per recuperare il terreno perduto. Da parte occidentale resta però necessario non varcare i sottili limiti che ci siamo imposti per non entrare in guerra con la Russia.

I tre incontri di Bruxelles – Nato, G7 e Consiglio europeo – sono stati in realtà un unico vertice in tre atti: un summit dell’Occidente. Tenuto in emergenza, era su come fermare Putin e sostenere l’Ucraina. Non – va chiarito – su come liberarsi di Putin; il successivo eccesso di retorica del presidente americano non va confuso con la policy che non contempla il regime change. Nell’agenda c’era invece molto di più della sola Ucraina: il certificato di esistenza in vita, e in buon a salute, dell’Occidente e del modello democratico; la Russia che minaccia la pace europea; le sorti dell’ordine internazionale. La tenuta della democrazia è un messaggio importante anche per l’equilibrio nei rapporti con la Cina.

L’Occidente non ha trattato costitutivo o procedure d’adesione ma valori internazionali che difende – libertà e indipendenza delle nazioni, ordine internazionale fondato sul diritto e non sulla forza. L’invasione dell’Ucraina li mette sotto attacco, quindi è un attacco all’Occidente. Chi, a Mosca come a Pechino, è rimasto sorpreso dalla coesione della risposta non aveva capito il punto di fondo: l’Occidente esiste, la democrazia resiste. I Paesi democratici sono diversi, vanno dal Portogallo al Giappone, si possono dividere su tante cose proprio perché sono liberi. Ma non sul collante fondamentale della democrazia. Difendono l’Ucraina per difendere sé stessi, in primis l’Europa, come ha detto chiaramente il presidente del Consiglio al Parlamento italiano.

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