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Il piano da 15 punti per fermare la guerra di Putin

Dialoghi di pace più concreti secondo i russi, mentre Kiev cerca garanzie. Quanto fidarsi delle aperture di Putin, che intanto aumenta la violenza sul campo?

C’è un piano in 15 punti che dovrebbe condurre la Russia verso la fine degli attacchi in Ucraina e la pace nel conflitto. Una trattativa che arriva sull’urlo del baratro, ossia al potenziale punto di non ritorno, quello in cui la violenza crescente giorno dopo giorno degli scontri raggiunge un livello da cui diventa quasi impossibile tornare indietro. E sia per gli aggressori — che più diventano violenti più dimostrano le loro debolezze, che al tempo stesso diventa impossibile ammettere per la necessità di salvare la faccia — che per gli aggrediti, che non possono vanificare tragedie e resistenza con compromessi sbilanciati.

Nella finestra d’opportunità che si stringe ogni ora qualcosa si è mosso, e oggi, mercoledì 16 febbraio, se ne parla, proprio mentre i colpi russi a Chernihiv finivano contro le persone in fila per il pane — fatti che complicano lo spazio di manovra diplomatico del presidente Volodymyr Zelensky davanti alla propria collettività, e quello di potabilità del russo Vladimir Putin. I progressi diplomatici sono raccontati da fonti informate al Financial Times, che dunque affidano quanto sta accadendo al primo tra i media globali tra quelli in grado di dettare la linea alle leadership.

La Russia otterrebbe l’accettazione di uno status di neutralità e di limitazione sulle attività delle forze armate da parte dell’Ucraina, mentre Mosca porta al tavolo un cessate il fuoco e il ritiro da Kiev. L’Ucraina dovrebbe rinunciare all’ambizione costituzionale di entrare nella Nato e promettere di non ospitare basi militari straniere (già vietare per legge in realtà) o armamenti in cambio della protezione di alleati come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Turchia.

Messa così, sembra che Zelensky — che ha già detto “ci rendiamo conto che l’Ucraina non diventerà un membro della Nato, lo capiamo, siamo persone adeguate” — si trovi davanti a una forma di resa proposta da Mosca. E infatti Kiev ha già annunciato che attorno a questi rumors, su cui il regime russo ha subito fatto le proprie speculazioni informative, ci sono diverse i aggiustamenti da fare. Innanzitutto servono garanzie occidentali per la sicurezza ucraina, e forse anche di questo parlerà il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, oggi a Mosca, usando un linguaggio che riguardo all’Occidente potrebbe essere più comprensibile per i russi (visto le posizioni critiche di Ankara, a tratti simili a quelle di Mosca).

La natura di queste garanzie e la loro accettabilità per Mosca potrebbe ancora rivelarsi un grande ostacolo a qualsiasi accordo. C’è d’altronde il precedente dell’accordo del 1994 come base non funzionante della sicurezza ucraina, tant’è che non è riuscito a prevenire l’aggressione russa. Kiev vuole assicurazioni perché Zelensky non può far digerire una resa ai suoi cittadini. Sono una necessità anche se è vero quello dichiarato da più parti — compreso dal ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio — sul ruolo che il presidente ucraino sta giocando nella “guerra di Putin”. Zelensky è tutti noi, ha detto Di Maio: e allora un simbolo del mondo libero e democratico aggredito dall’autocrate impazzito quanto può cedere davanti a quell’aggressione?

A Kiev circola una preoccupazione evidente: quanto ci si può fidare di Putin? Uno che anche oggi ha dichiarato di non aver intenzione di “occupare” l’Ucraina, che garanzie può dare sul futuro? Come prendere la disponibilità a muoversi vero una pace costruita? Non c’è il rischi che Mosca, in difficoltà evidenti fin dai primi colpi sparati in Ucraina, possa guadagnare tempo bluffando sulle trattative per raggruppare le sue forze e riprendere la sua offensiva?

Mykhailo Podolyak, un consigliere senior del presidente ucraino Zelensky, ha dichiarato che qualsiasi accordo comporterebbe “in ogni caso che le truppe della Federazione Russa lascino il territorio dell’Ucraina”, ossia che abbandonino le posizioni conquistate con l’invasione iniziata il 24 febbraio — vale a dire le regioni meridionali lungo il Mar d’Azov e il Mar Nero, dove si combattente nel tentativo di isolare l’accesso al mare all’Ucraina, così come il territorio a est e nord di Kiev. Poi c’è la questione Donbas e Crimea, altro punto complicato.

Ammesso che la Crimea è irrecuperabile, quei territori occupati da otto anni dai filorussi che strada prenderanno? È possibile una compartimentazione: trattare in modo disgiunto i territori conquistati dalla Russia con l’invasione attuale rispetto alla Crimea e al Donbas — dove il riconoscimento di un livello di autonomia da Kiev era già parte degli accordi di Minsk del 2015.

Il capo delle relazioni con i media della presidenza russa, Dmitry Peskov, ha detto ai giornalisti mercoledì che la neutralità ucraina basata sullo status dell’Austria o della Svezia era una possibilità. La prima lo è per tradizione, l’altra dopo un trattato del 1955, imposto dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale per evitare nuove invasioni), ma Podolyak ha fatto notare sul suo canale Telegram che l’Ucraina “è uno stato in guerra” e dunque l’eventuale modello di neutralità deve essere costruito su misura. È anche un modo per non far passare lo status come una vittoria russa.

Kiev propone un modello di garanzie di sicurezza che implica la partecipazione immediata e legalmente verificata di un certo numero di paesi garanti nel conflitto dalla parte dell’Ucraina. Tali Paesi sarebbero responsabili di una reazione (armata) se qualcuno dovesse violare di nuovo l’integrità territoriale ucraina. Come strutturare questo schema?

Sergei Lavrov, il ministro degli esteri russo che nei primi giorni dell’attacco si muoveva dalle seconde linee, ora è tornato attivo e ha detto che “formulazioni assolutamente specifiche” erano “vicine ad essere concordate” nei negoziati. Si muove la diplomazia, ed è anche un potenziale segnale che Putin in qualche modo sia stato ricondotto al senso del realismo: prendere l’Ucraina appare impossibile, serve un’exit strategy adesso che è ancora possibile.

In un discorso virtuale ai membri del Congresso mercoledì, Zelensky ha supplicato gli Stati Uniti di applicare una no-fly zone o fornire jet da combattimento o altri mezzi per respingere l’attacco della Russia al suo paese, e imporre sanzioni economiche più severe su Mosca. L’appello drammatico di Zelensky passerà come momento storico del conflitto, raccontato dai giornalisti americani che facevano notare la commozione tra i legislatori di Capitol Hill, ma se è quasi impossibile che si applichi la no fly zone difficile pare anche l’invio dei caccia promessi a Kiev.

Se il blocco dello spazio aereo si porta dietro il rischio di un coinvolgimento diretto nel conflitto di chi quel blocco deve farlo rispettare, ossia la Nato (o gli Usa o l’Ue), l’invio di armi pesanti come i caccia potrebbe essere percepito da Putin come un’escalation che implica una reazione ancora più aggressiva da parte di Mosca. Risultato (oltre al rischio che quegli aerei vengano abbattuti prima di essere consegnati agli ucraini aprendo a un incidente diplomatico in un teatro di conflitto): si eroderebbe lo spazio di manovra diplomatico perché la via d’uscita per Putin sarebbe ancora più stretta.

Poi c’è una questione di pura narrazione che la Russia avrebbe voluto inserire nei negoziati — probabilmente al solo fine di difendere la scelta dell’attacco. Garantire che il russo diventi la lingua in Ucraina (con tutto il peso che comporta). Putin ha inquadrato la sua invasione come un tentativo di proteggere i russofoni in Ucraina da quello che sostiene essere un “genocidio” da parte dei “neonazisti” della “giunta di Kiev”: per trattarci deve anche dimostrare ai propri cittadini di aver vinto su questo fronte culturale.

Bottom line: mentre si discute ai tavoli negoziali internazionali il modo per raggiungere una grande pace, di pari passo dovrebbe procedere la costruzione di cessate il fuoco anche puntuali per permettere l’immediata apertura di corridoi umanitari con cui assistere i civili. I tempi della diplomazia e quelli della guerra sono diversi, il rischio del non congelare i combattimenti e fermare le armi è che la guerra continui, con essa le morti. Inoltre le evoluzioni sul campo potrebbero alterare qualsisia incrocio d’astri sulla pace.


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