Tanti, ma non tantissimi, avevano messo in guardia sul fatto che il 2022 sarebbe stato un anno pre-elettorale nel corso del quale gli animal spirits dei partiti della larga nonché eterogenea maggioranza avrebbero preso corpo e condizionato il percorso del governo. Cosa che sta avvenendo e che spiana la strada a un’altra considerazione… Il mosaico di Carlo Fusi
Il mantra prima sussurrato e alla fine squadernato con incontenibile enfasi era che Mario Draghi era meglio non andasse al Quirinale perché nessuno avrebbe potuto adeguatamente sostituirlo a Palazzo Chigi. C’era parecchia ipocrisia in questa posizione e comunque l’ex presidente della Bce è rimasto dov’era: al posto di comando seppur più debole di prima. Tanti – e tra questi chi scrive – ma non tantissimi avevano messo in guardia sul fatto che il 2022 sarebbe stato un anno pre-elettorale nel corso del quale gli animal spirits dei partiti della larga nonché eterogenea maggioranza avrebbero preso corpo e condizionato il percorso del governo. Cosa che sta avvenendo e che spiana la strada all’altra considerazione per cui non essendo riuscito a salire sul Colle il presidente del Consiglio sarebbe in pochi mesi uscito di scena abbandonando anche la guida dell’esecutivo. È facile preconizzare che questo scenario si realizzerà una volta chiuse le urne delle elezioni politiche della primavera del prossimo anno.
Dunque non stupisce che gli stessi partiti che hanno voluto inchiodare SuperMario nel suo incarico adesso non facciano altro che mettergli i bastoni tra le ruote: sulla guerra russo-ucraina; sulla giustizia, sul catasto; sulle concessioni balneari e così via. Né stupisce che il presidente del Consiglio non deroghi dal percorso che ha tracciato al momento del suo insediamento, e che resti tenacemente tetragono rispetto agli sbandamenti che una volta il centrodestra di governo e l’altra l’ex componente giallorossa provano a determinare. Piuttosto preoccupa l’inevitabile sfarinamento che un tale infinito ping pong procura; al punto da augurarsi che il premier non perda la pazienza e molli prima del tempo. Sfarinamento che osserva un andamento ogni volta ferreo: grandissimi lai da parte di questa o quella forza politica condita dalla minaccia mai esaurita di lasciare la maggioranza e provocare la crisi o addirittura le elezioni anticipate. Poi i lai rientrano di fronte alla determinazione del capo del governo; il rischio elettorale evapora e si va avanti come prima e più di prima, con la stanchezza di assistere all’infinita replica dello stesso copione.
Tuttavia guai a considerare le continue minacce sguainate e poi rinfoderate solo come l’ennesima riproposizione del – chiamiamolo così – teatrino della politica. In realtà i continui affondi di Salvini, Berlusconi, Renzi, Letta e Conte – mentre dall’esterno Giorgia Meloni bombarda il quartier generale – sono metafore di quel che accadrà tra pochi mesi, in campagna elettorale prima e, una volta misurati i rapporti di forza tra schieramenti, a seggi chiusi dopo. Del fatto cioè che i contenitori politici che si presenteranno di fronte agli elettori per ottenerne il voto sono così frastagliati al loro interno da apparire sostanzialmente liquefatti e non in grado di esprimere il potenziale per guidare con autorevolezza ed efficacia un Paese che ribolle e inserirsi in uno scenario internazionale che cambia pelle. Dunque tante tempeste che adesso si svolgono in un bicchier d’acqua tra pochi mesi sono destinate a diventare uragani sotto il profilo dei possibili equilibri di governo.
Chi ha avuto modo di parlargli, descrive un capo dello Stato assai preoccupato. Non potrebbe essere altrimenti. Chiuse le urne, a Sergio Mattarella verrà meno quella che è stata la sua arma più contundente: la designazione di Draghi come soluzione alla crescente impasse della politica. SuperMario non sarà più disponibile e soprattutto non sarà, almeno sulla carta, disponibile una maggioranza “di larghe intese” come l’attuale. Perciò delle due l’una. O i partiti una volta presi i voti si comporteranno come se il maggioritario non esistesse, intavolando accordi trasversali e in tal modo, detto brutalmente, tradendo il mandato popolare con alleanze non preventivamente dichiarate e magari addirittura negate in campagna elettorale e perciò, con buona pace del ministro D’Incà, alimentando alla grande il braciere della disaffezione politico-istituzionale degli italiani. Oppure lo schieramento che prevarrà indicherà un premier e si accingerà a formare un governo sapendo di dover scontare al proprio interno differenziazioni e crepe di grande consistenza a partire dalla politica estera. Il che potrebbe determinare il naufragare in pochi mesi delle medesime intese allestite dopo il voto.
Due scenari entrambi fortemente negativi. A forza di scherzare con il fuoco, ci si brucia. È semplice saggezza popolare, ma i partiti anno a gara a rifiutarla. Preparando un futuro pieno di incognite.