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(De)costruire Bucha. Dentro la narrazione del massacro

Di Federico Berger

Intorno al massacro di Bucha il playbook della disinformazione nei nuovi anni ’20. Tra foto decontestualizzate e propaganda, così la strage apre un nuovo fronte nell’infowar. L’analisi di Federico Berger, esperto di social media intelligence

Se la carneficina perpetrata a Bucha, Irpin e Hostomel ha avuto un impatto a livello politico e militare di portata planetaria, la stessa cosa si può dire anche a livello mediatico e informativo. A partire dalla ritirata delle truppe russe tra il 30 e il 31 marzo, la scoperta delle atrocità commesse nelle municipalità a nord-ovest di Kiev ha portato inevitabilmente a un’onda anomala di contenuti pubblicati sul web che documentavano le atrocità commesse sulla pelle dei civili ucraini.

Come puntualmente precisato dal professor Walter Quattrociocchi, l’enorme abbondanza di contenuti presenti online è terreno fertile per la costruzione di narrative polarizzanti e divisive sull’accaduto, occasione che la sfera politica e diplomatica non si lascia sfuggire.

Da un lato, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha commentato ufficialmente definendo le stragi come un vero e proprio genocidio da parte della Russia, imputata da larga parte della comunità internazionale come responsabile dei fatti. Nonostante le prove siano ancora insufficienti per dimostrare che Bucha sia un nuovo caso di sterminio di massa, lo stesso termine ha generato una narrativa propria all’interno discorso pubblico, venendo ripreso dal Governo polacco e da quello britannico oltre che da diversi commentatori e analisti sempre in ambito occidentale.

Mentre nell’infosfera euroatlantica è proliferato un certo tipo di racconto, il Cremlino non ha perso tempo nel generare una contronarrazione di segno opposto a quella pro-Kiev. Il 3 aprile il Ministero della Difesa di Mosca ha condiviso un post proveniente dal canale Telegram “War on Fakes” (un calderone di contenuti propagandistici russi) che argomentava come il massacro fosse “una campagna mediatica coordinata”.

La tesi è corroborata da immagini e video allegati che dimostrerebbero come le truppe russe abbiano iniziato ad abbandonare le municipalità il 30 marzo e che solo dopo quattro giorni abbiano fatto la loro comparsa le foto dei corpi senza vita. Nonostante questa ipotesi sia stata smentita dalle immagini satellitari precedenti al 31 marzo, questi multimedia hanno proliferato anche su Twitter grazie all’attività di condivisione di numerosi account allineati con gli interessi strategici del Cremlino.

Poche ore dopo il post su Telegram, lo stesso ministero ha rilasciato una dichiarazione ufficiale che riportava come nessun residente delle aree precedentemente occupate abbia subito violenze da parte dell’esercito russo. Sempre nel comunicato si rilancia la tesi che la strage sia stata architettata ad arte dal regime ucraino da dare in pasto ai media occidentali. Questa narrativa alternativa è stata particolarmente pervasiva in ambito russofono: su VKontakte, il Facebook di Russia, la versione del Dicastero è quella dominante nelle discussioni riguardo a Bucha.

Anche il ministero degli Affari Esteri si è mosso a tutela degli obiettivi strategici russi. Su Twitter alcuni account ufficiali dell’organo di governo guidato da Lavrov hanno rilanciato un sommario pubblicato sempre dalla Difesa in cui vengono messe in fila le ragioni per cui l’eccidio sia una bufala prodotta da Kiev. La portavoce Maria Zakharova ha poi dichiarato come l’Ucraina abbia sfruttato le tre municipalità come teatro per una messinscena finalizzata a spingere per l’escalation del conflitto e a far deragliare le negoziazioni di pace. Negoziati che, insieme ai civili innocenti dei sobborghi di Kiev, sono la vera parte lesa di questo caso e non potranno che sperimentare ulteriori complicazioni.

Al netto della presa che Bucha ha avuto sul discorso politico nei giorni scorsi, agli occhi del pubblico occidentale nasce l’esigenza di trovare i responsabili della carneficina nel processo blaming del mostro che si è macchiato di queste atrocità.

Il 4 aprile, i volontari del progetto ucraino indipendente InformNapalm (dedicato al giornalismo indipendente e alle investigazioni online) ha pubblicato su Telegram una lista contenente dati personali e informazioni sui presunti responsabili del massacro. Si tratterebbe dell’Unità militare russa 51460, proveniente dalla Siberia, dispiegata proprio a nord-ovest di Kiev e guidata da quello che i media hanno ribattezzato come il “Macellaio di Bucha”: il colonnello Omurbekov Azatbek Asanbekovich, appartenente alla minoranza etnica siberiana di origine mongola dei buriati.

Ma mentre le accuse richiedono tempo e analisi accurate per essere validate, nella mente dell’opinione pubblica occidentale queste supposizioni hanno già fatto presa. Come suggerito dallo storico Franco Cardini, storicamente la russofobia e la percezione del popolo russo come “altro” rispetto al contesto europeo passa anche attraverso la costruzione immaginaria dei russi come barbari provenienti dalle steppe orientali, selvaggi, distruttori, feroci e disumani.

Pregiudizi ai quali si sono dimostrate inclini anche molte testate italiane, dal momento che diversi media autorevoli hanno ripubblicato un’immagine che ritrae giovani militari yakuti membri dell’Unità 51460 indicandoli come i “killer di Bucha”, ragazzi che sono stati immediatamente raggiunti sui social media da messaggi di odio e minacce. La foto però è fuori contesto, non è stata scattata in Ucraina, e gli stessi soggetti russi ritratti dichiarano apertamente di non essere mai entrati nel vicino Paese.

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