Oggi che si pretende dalla cultura anche un impatto economico (possibile) e una logica occupazione non assistenzialista, deve essere chiaro che per ogni nomina nei Cda “alla vecchia maniera” si bruciano opportunità di crescita del settore, della nostra società, e anche opportunità di ricavi e profitti per le organizzazioni culturali. Il commento di Stefano Monti, partner di Monti&Taft
L’Italia della cultura vive tempi molto particolari, o, come piaceva molto dire qualche anno fa, si trova a vivere oggi un periodo di forte transizione.
Con sempre maggiore evidenza, negli ultimi anni, la cultura ha iniziato ad acquisire, almeno nelle dichiarazioni e, più in generale, nel dibattito pubblico, sempre più i connotati di comparto economico.
Non sono rare, oggi, le occasioni in cui esponenti illustri e meno illustri della nostra politica indicano proprio nella cultura, e con più precisione nel cluster delle industrie culturali e creative, una leva per lo sviluppo economico del nostro Paese.
Queste affermazioni, dal sapore un po’ iperbolico, registrano in ogni caso un forte cambiamento di percezione nei riguardi del settore, che risponde, al contempo, anche alla crescita di numerose attività economiche che, pur non potendo di certo rappresentare la principale “leva” dell’economia nazionale, mostrano comunque risultati significativi, in termini occupazionali e di valore aggiunto.
Estendendo la visione al medio periodo, quindi, in questi anni si sta affermando una visione economica del comparto culturale, che va progressivamente sostituendosi al paradigma precedentemente dominante nel nostro tessuto sociale e politico, che interpretava la cultura come una dimensione prettamente istituzionale e politica.
Si tratta di un cambiamento di non poco conto, che richiede progressivi ed incrementali “assestamenti” in praticamente ogni dimensione del settore: dalla composizione del mercato, alle dimensioni legislative, dai percorsi di studio fino alle politiche del lavoro.
Molti di questi piccoli e grandi aggiustamenti possono già essere apprezzati nel nostro scenario: il livello crescente di giovani che investono su formule di autoimpiego per poter esercitare la propria professione all’interno del contesto culturale e creativo; il consolidamento di alcuni player del mercato che oggi vedono crescere fatturato e numero di dipendenti; incentivi fiscali per l’investimento in nuove industrie culturali; una progressiva apertura da parte delle amministrazioni, soprattutto locali, ad una collaborazione con i soggetti privati in un’ottica di valorizzazione del territorio.
Accanto a tali cambiamenti, tuttavia, è possibile anche apprezzare la permanenza di logiche che sono il riflesso del precedente paradigma, soprattutto nelle dimensioni più apicali: è così possibile individuare, soprattutto nelle amministrazioni centrali, un certo scetticismo nei riguardi dell’intervento privato nel settore culturale che non si limiti ad essere quello di “erogatore di servizi aggiuntivi”; una formulazione delle politiche fiscali che tende a privilegiare una visione statica dell’arte; l’assegnazione di cariche rappresentative di istituzioni più o meno importanti secondo una logica da prima repubblica.
In questo particolare scenario, quest’ultimo elemento riveste un ruolo fondamentale, perché, di fatto, riflette esattamente l’attuale coesistenza di due mondi diversi, che pur non presentando i tratti del conflitto, determina in ogni caso una forza di attrito, che rallenta, quando non blocca, il normale moto che il settore culturale potrebbe oggi rappresentare.
Da un lato abbiamo la cultura “impresa”: giovani professionisti cresciuti combinando competenze culturali con conoscenze ed esperienze di management; imprenditori che coniugano conoscenze tecnologiche, finanziarie, artistiche, economiche; bibliotecari che affrontano con competenza problematiche legate alla digital literacy, e che approfondiscono le potenzialità dell’intelligenza artificiale per la classificazione e l’accessibilità della conoscenza; archeologi che investono il proprio tempo e le proprie competenze per la valorizzazione del territorio locale, in una logica di citizen science, anche sfruttando le potenzialità della ricostruzione 3D immersiva; artigiani che modellano il legno secondo le antiche tradizioni, implementando un modello di business fondato sull’export; ecc. ecc. ecc.
Si tratta di un modo cresciuto nel paradigma della competenza: non si tratta di uomini o donne straordinari, ma di individui cresciuti in un contesto che interpreta la cultura secondo una logica para-industriale, e sicuramente in una logica produttiva.
Sull’altro versante ci sono invece i Consigli di Amministrazione composti da notabili, da persone che hanno trascorso la propria carriera in settori differenti da quelli culturali, e che consolidata ormai la propria posizione in un network, affastellano incarichi da cda nel mondo culturale, per vezzo, per conferma sociale, per relazione.
Si badi bene: relazione, network, conferma sociale, e lobby sono degli elementi necessari al funzionamento di qualsiasi settore economico, e ancor più quello culturale, che presenta a livello strutturale delle interdipendenze che richiedono che l’estensione del proprio network superi i confini del settore cultura.
Non è dunque l’attribuzione di incarichi per “relazione” ad essere anacronistica: è piuttosto una vaga correlazione tra le competenze e l’incarico. Nel nuovo mondo della cultura, la relazione si costruisce partendo da competenze verticali: si creano partnership, si fa networking, e si strutturano conoscenze e, qualche volta, amicizie, partendo però da una posizione di competenza tecnica ed empirica. Condizioni che spesso invece sono carenti nell’attuale conformazione dei cda, composti da consiglieri che, di professione, ormai, fanno i consiglieri.
Per capire che tale sistema sia ormai inadeguato basta semplicemente guardare al numero di incarichi collezionati dalle medesime persone: tanti da rendere praticamente impossibile per queste persone assolvere agli obblighi di attenzione, competenza, e gestione che la “visione produttiva della cultura” logicamente attribuisce a tale ruolo.
Non si tratta del solito schema di crescita organizzativa, in cui, come è naturale che sia, man mano che si assumono posizioni di responsabilità, ci si affida sempre più alle competenze di coloro che sono posizionati a livelli più bassi della gerarchia.
Si tratta piuttosto di una frattura, in cui chi è chiamato a prendere decisioni lo fa secondo una logica completamente differente da quella della struttura, secondo competenze distanti da quelle della struttura: perché la cultura non è un’impresa nel senso tradizionale del termine, e la visione produttiva della cultura richiede che chi prende le decisioni all’interno di un’organizzazione abbia competenze aggiuntive rispetto ai “rapporti” e alle “relazioni”.
In altre parole, alla visione produttiva della cultura non basta che il nuovo consigliere di amministrazione sia stato in altri dieci, centro o mille cda prima di approdare alla propria organizzazione: è necessario che quel consigliere sappia esattamente ciò di cui si parla, delle implicazioni di ogni scelta, e che sappia prendere delle decisioni che tengano conto di tutti i numerosi fattori che rendono la cultura un settore che risponde a logiche che non sono del tutte sovrapponibili agli altri comparti produttivi.
Soprattutto, la visione produttiva della cultura non può attendere i tempi dell’adeguamento che la visione istituzionale imprime: se la cultura deve essere anche un settore economico, non può attendere che il cambio al vertice avvenga per sostituzione anagrafica. Questi tempi possono essere adatti alla sostituzione di un comparto non produttivo, di un museo il cui obbligo sia quello di restare aperto, e non di un museo che abbia, come mission, il coinvolgimento dei cittadini e che misuri il proprio operato sulla base di quante persone abitualmente frequentano le attività organizzate.
In altri termini, la sostituzione lenta risponde ai tempi in cui la cultura era un vezzo, o un modo per acquisire una desiderabilità sociale. Oggi che si pretende dalla cultura anche un impatto economico (possibile) e una logica occupazione non assistenzialista, questo tempo non è più adeguato.
Ciò che deve essere chiaro, è che per ogni nomina alla vecchia maniera si bruciano opportunità di crescita del settore, della nostra società, e anche opportunità di ricavi e profitti per le organizzazioni culturali.
Ed è un lusso, questo, che il nostro Paese non può permettersi.