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Politica liquida, anzi liquefatta. Con gli elettori in fuga. Il mosaico di Fusi

Il centrodestra è ridotto al rango di astrazione politica e il centrosinistra segue copiando il medesimo andazzo. Ne consegue il più attorcinato dei paradossi che impera nel Palazzo, con Meloni, Conte e Letta che di dritto o di rovescio puntano le elezioni anticipate sapendo assai bene che non possono ottenerle

“Siamo pronti per governare”, assicura Giorgia Meloni. Giusto, perché no? Se gli italiani dovessero confermare i sondaggi che danno FdI come primo partito, è legittimo che l’ex ministra di Berlusconi rivendichi per sé la poltrona di palazzo Chigi. Solo che il 20 o 22 per cento è bottino lusinghiero ma assai lontano dal 51, peraltro traguardo (fortunatamente?) mai raggiunto da nessun partito “in solitaria”.  Perciò Meloni non può sottrarsi al proseguimento del suo ragionamento: pronti ad entrare con la Durlindana nella stanza dei bottoni, ma impossibilitati a premere da soli tutti i pulsanti (posto che siano ancora al loro posto: remember Pietro Nenni…). Serve l’aiuto di qualcun altro: ecco, esattamente chi?

Questo Giorgia non lo dice perché non può farlo. E infatti tace alla Convention di Milano non citando nemmeno per sbaglio (ma è giusto attendere la replica di domenica) i suoi formalmente partner di schieramento: Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Non può né politicamente né tatticamente parlando, perché quello schieramento allo stato è liquido: o sarebbe meglio dire liquefatto.

Chi si contenta della superficie elucubra sul fatto che,  in Sicilia più che altrove ma con eguale effetto sfarinamento, non c’è intesa sui candidati amministrativi e perciò figuriamoci con i collegi uninominali, che sono l’atout per vincere alle elezioni politiche del 2023. Chi vuole approfondire per tentare di afferrare dinamiche più significative, avverte che il guazzabuglio candidature è conseguentia rerum, e i nomi non c’entrano mentre  c’entrano invece le prospettive, i programmi, il posizionamento europeo.

Già il fatto che Meloni sia fuori della maggioranza di larghe intese di SuperMario Draghi e Salvini e Berlusconi dentro, la dice lunga. Il resto è dato dalla divaricazione sulla politica estera, sulla guerra in corso tra Russia (aggressore) e Ucraina (aggredito), sulle riforme da radicare per ottenere i finanziamenti del Recovery, sul Pnrr, eccetera eccetera. Il centrodestra è ridotto al rango di astrazione politica e il centrosinistra segue copiando il medesimo andazzo. Ne consegue il più attorcinato dei paradossi che impera nel Palazzo, con Meloni, Conte e Letta che di dritto o di rovescio puntano le elezioni anticipate (come altro giudicare la stoccata del segretario Pd: “Siamo gli unici a sostenere convintamente il governo”, sottinteso: potremmo anche stancarci?) sapendo assai bene che non possono ottenerle.

Come pure che i venti di crisi, in questo caso lasciati soffiare perfino dal capo del governo – e basta pensare alla salita al Colle per la questione delle armi all’Ucraina a cui ha fatto seguito Giuseppi per lo stesso motivo – sono destinati a rientrare nel vaso di Eolo: chi può immaginare uno showdown alla vigilia del varo della legge di Stabilità con gli indicatori che sono tornati ad avere davanti il segno meno?

Dunque per colmare le reticenze della Meloni e di praticamente tutti gli altri leader politici sulle strategie mancanti e le afasie ammiccanti, bisogna far riferimento ad un altro elemento, più di fondo e se possibile ancora più allarmante. Precisamente la riottosità, per incapacità o scelta a questo punto poco importa, di partiti e forze politiche (MoVimenti no, si sono auto cancellati) di elaborare strategie e visioni di lungo periodo, di radicare un progetto per il Paese fatto di tappe successive con indosso le vestigia della credibilità, di manifestare accanto ad un’insopprimibile spinta a far prevalere gli interessi singoli su quelli generali anche un sussulto di lungimiranza adatto a fronteggiare le sfide che porta il futuro, specie quelli prossimo.

La realtà dice cose diverse. E non perché i talk show siano diventati rodei senza capo né coda dove vince chi la spara più grossa. Quanto piuttosto perché quell’asticella nessuno vuole superarla, preferendo passarci sotto contando al momento opportuno su un oplà che stravolga le posizioni assunte fino a ieri senza pensare di pagare dazio, anzi sorridendo con entusiasmo al trasformismo che avanza.

Il punto è che un così un Paese non può reggersi. I “solisti” nostrani, intesi come quelli che  pensano di fare tutto da soli, hanno sempre finito per incartarsi. Nello specifico poi, Conte può coltivare l’ambizione di andare da solo al voto immaginando poi di imbastire alleanze con chi capita e conviene, e magari scontrarsi con la realtà di tanti dinieghi; mentre la Meloni ha un repertorio obbligatoriamente più ristretto: un destra-centro con due partner che accettano la sua supremazia e la sua leadership.

Quanto possa essere uno schema praticabile, è facile da capire. La molla del “solismo” può scattare anche nel Pd, pure qui con l’idea di stabilire convergenze ed alleanze solo ad urne chiuse. Però per riuscirci Letta e co. devono cambiare la legge elettorale. Oppure tradirla: presentarsi in coalizione e poi schizzare ciascuno in direzione opposta. Si può fare e si è già fatto: basta poi non lamentarsi, piangendosi addosso lacrime di coccodrillo, che gli italiani a votare non ci vanno più.


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