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Il continente debole e l’apoteosi della forma

Se si vuole l’Europa, allora c’è bisogno di un atto di coraggio. E forse, anche un po’ di umiltà nell’ammettere che gli europei non solo devono ancora venire alla luce, ma soprattutto possono anche non essere asettici e perfetti, e che possano, anche loro, perseguire propri interessi espliciti e meno espliciti

Sono poche le cose che si possono affermare con solida sicurezza in merito al conflitto in corso in Ucraina. Di queste solo un’affermazione è certa: in qualunque modo concluderà la vicenda bellica, ci saranno degli effetti di breve e di lungo periodo non solo in termini commerciali, ma anche in termini di posizionamento strategico dei soggetti coinvolti.

Di fronte a tale evidenza, una riflessione seria, fondata e costruttiva sulla nostra Europa è improcrastinabile.

Quanto sta accadendo in questi tragici giorni rivela una profonda debolezza che non è per nulla nuova, ma che rischia di indebolire sempre più il nostro continente (e non solo l’Unione europea): a differenza di tutti gli altri grandi attori internazionali coinvolti, la nostra Unione appare incerta, ambigua, formale.

È una dimensione che sicuramente coinvolge aspetti politici, economici e bellici, ma è una riflessione che riguarda anche in modo molto diretto la nostra cultura, come il confronto con le altre potenze rende evidente.

Abbiamo da un lato il nazionalismo russo. Perfetto novecento. La propaganda del Cremlino è diretta: Putin che si mostra trionfante agli occhi degli adulatori concittadini. Gli interessi di Putin sono chiari. E le sue azioni non lasciano dubbi. Dall’altro lato del conflitto abbiamo l’Ucraina di Zelensky, che anche grazie alla sua capacità di comunicatore ha saputo trasformare un conflitto “locale” in una vicenda globale. Anche lui ha un interesse chiaro ed esplicito. E neanche su questo c’è molto da discutere.

Con gli Stati Uniti la questione diviene più delicata: dagli scandali dei ricchi oligarchi, alle battaglie di informazione, il discorso ufficiale a stelle e strisce è composito, ma ha un obiettivo chiarissimo, riacquisire maggiore influenza sull’Europa, e i recenti accordi sulla fornitura di gas a prezzi competitivi per rendere più coerenti le minacce contro la Russia più credibili ne sono solo un’ennesima dimostrazione.

Molte più ambiguità parrebbe mostrare Pechino, ma si tratta di ambiguità formali: sul piano sostanziale è noto a tutti che la Cina perseguirà la strada che trova di maggiore convenienza, e le “ambiguità” mostrate sono solo il risultato di un paniere di interessi estremamente diversificato. L’Europa invece gioca una partita in cui non ha ruolo, ma solo forma: da un lato condanna, dall’altro media; da un lato “assolve” dall’altro sanziona; da un lato sostiene, dall’altro si ritrae.

In questo conflitto, che è forse la prima guerra “diplomatica” mondiale, l’Europa si presenta come una sorta di front-office che non può prendere decisioni.

Questo elemento è tutt’altro che “casuale”: prima ancora che l’assenza di una direzione politica, che sarà sicuramente un elemento che ritornerà al centro del dibattito pubblico, questa è la conseguenza di una mancata identità europea, che soltanto in parte può essere demandata alla giovinezza del progetto comunitario.

È piuttosto da ricercare in una configurazione prettamente amministrativa e burocratica che ha connotato l’Europa negli ultimi decenni. Non esiste una cultura “europea” e tantomeno questa cultura viene, fattivamente, ricercata.

Il dibattito europeo è rarefatto e tecnico, le questioni economiche e politiche sono principalmente affrontate con un approccio contrattuale, in cui da un lato ci sono i singoli Stati Membri e dall’altro c’è un’Unione che spesso è un organismo non così pienamente identificato.

Questa dimensione indebolisce non solo l’Unione europea, ma anche l’autorevolezza dei diversi Stati: perché se è vero che ogni rappresentante nazionale ha una propria autonomia, è anche vero che le singole posizioni devono in ogni caso mostrarsi coerenti con l’insieme di accordi, sempre più capillari, che sono stati siglati negli ultimi anni con gli altri Paesi membri. Allo stesso modo, se è vero che l’Unione europea, attraverso i propri organi, può esprimere una propria posizione, è anche vero che tale posizione non sarà quella di nessuno, perché l’Italia e i suoi politici continueranno ad avere le proprie posizioni, e così i francesi, i tedeschi, gli spagnoli e così via.

E a poco, o a nulla, valgono gli investimenti nei cosiddetti “Progetti europei” su questo versante, perché sono costruiti sulle stesse premesse asettiche che definiscono il linguaggio ufficiale della nostra Unione. Progetti che hanno il grande obiettivo di creare una cultura unitaria ma che si risolvono in periodi di permanenza all’estero, come se gli Stati Uniti fossero divenuti tali a suon di scambi internazionali tra accademici dell’Iowa e del Wisconsin.

Il Continente europeo, ancor prima dell’Unione, deve quindi essere chiamato a riflettere su cosa si voglia intendere per Europa. Perché se si vuole una serie di trattati di natura commerciale-burocratica, allora è necessario ridimensionare gli aspetti che limitano le differenti nazioni ad assumere delle decisioni autonome e sovrane. E se si vuole che quanto in costruzione divenga davvero un’Unione, allora è il caso di dismettere l’impeccabile sintassi super-partes per iniziare a riflettere sui valori che “concretamente” l’Unione europea ha intenzione di perseguire, e su quali siano le visioni del mondo di cui gli Europei si fanno portavoce.

Lo si può fare solo attraverso confronti comunitari, che vedano protagonisti anche i cittadini, e lo si può fare soltanto assumendosi il rischio di vedere più contraddizioni che omogeneità, più posizioni divergenti che coincidenti.

Se si vuole l’Europa, allora c’è bisogno di un atto di coraggio. E forse, anche un po’ di umiltà nell’ammettere che gli europei non solo devono ancora venire alla luce, ma soprattutto possono anche non essere asettici e perfetti, e che possano, anche loro, perseguire propri interessi espliciti e meno espliciti.

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