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In Italia il partito americano serra i ranghi. Con l’Ucraina

C’è un fronte politico che distingue tra aggressore (Russia) e aggredito (Ucraina) e vede negli Usa e nella Nato una garanzia di sicurezza. A Roma un manifesto nel convegno targato Formiche, Rel ed Europa Atlantica con Borghi, Casini, Cicchitto, Gelmini, Manciulli, Minniti, Ranieri, Urso

L’istantanea da sola vale il biglietto. Senato, Sala Zuccari. Eppur si muove: il fronte atlantista ha una voce, un volto e le idee chiare. È un fronte trasversale e ci vuole un attimo per capirlo. A dire sì, senza se e senza ma, alla resistenza ucraina contro l’invasione russa si alternano il presidente della Fondazione MedOr ed ex ministro dell’Interno Marco Minniti, il responsabile della sicurezza nella segreteria Pd Enrico Borghi, Adolfo Urso, senatore e colonna di FdI e presidente del Copasir. C’è l’azzurra Maria Stella Gelmini, ministra per gli Affari regionali, e l’immancabile Pier Ferdinando Casini, in regia Andrea Manciulli, dem con grande esperienza internazionale, oggi presidente di Europa Atlantica e il collega Umberto Ranieri, con loro Fabrizio Cicchitto.

C’è una politica che sa distinguere tra aggressore e aggredito. Che mal sopporta quello che Casini chiama “pacifismo neutralista o post-resistenziale” (citofonare Anpi). E vede un avversario nell'”asse dell’indifferenza” (copyright Minniti). A sgombrare il campo da dubbi e mezze verità ci pensa il titolo del convegno, organizzato da Formiche, Riformismo e Libertà (Rel) ed Europa Atlantica. Dopo l’invasione russa, due mesi fa, “Mai più nulla sarà come prima”.

Nel mondo, si intende. Perché in Italia invece la guerra di Vladimir Putin ha risvegliato umori e tendenze dure a morire. Quelle ad esempio che in queste settimane ridanno idee e vigore al sempreverde partito anti-Nato e antiamericano. Rumoroso, militante. Minoritario nel Paese, un po’ meno in (questo) Parlamento.

Succede così che mentre il presidente americano Joe Biden risponde all’appello di Volodymyr Zelensky con l’ennesima fornitura di armi (ammontano già a più di 2 miliardi di dollari le spedizioni da Washington), nel Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, primo partito in aula, c’è chi vuole votare una mozione per fermare del tutto le forniture a Kiev. Dimenticando, o forse volutamente ignorando, che “come con il nazifascismo, la resistenza si fa con le armi, non con i fiori”, dice Casini.

Ecco allora che il sostegno alla causa ucraina contro l’invasione russa, e dunque alla causa occidentale, diventa la vera cesura politica del nostro tempo. “Il sostegno alla Nato e alle spese militari – la spiega meglio Gelmini – sono lo spartiacque tra riformismo e populismo”. Uno spartiacque che vede nuove squadre in campo. L’antisistema Giorgia Meloni, che nel sistema spera di entrare su un tappeto rosso alle politiche del 2023, si schiera con Kiev e gli aggrediti. Segno di “un’opposizione chiara e ragionevole”, riconosce Casini, che plaude anche al premier Mario Draghi e ai ministri degli Esteri e della Difesa Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini, “non hanno sbagliato una virgola”.

E però nessuno sfugge a un mea-culpa collettivo. Non a caso la parola più ricorrente tra i presenti, incalzati dalle domande della direttrice di Formiche Flavia Giacobbe e il vicedirettore di Huffington Post Alessandro De Angelis, è “illusione”. La “pura illusione che finita la guerra in Donbas Putin si sarebbe accontentato della pace”, chiosa Manciulli. “L’illusione che l’era di Eltsin avrebbe aperto la Russia all’Occidente”, ribatte Cicchitto. “L’illusione che alla tecnologia e alla globalizzazione sarebbe seguita la democrazia”, fa eco Urso, che individua nel biennio 2013-2014, l’anno dell’elezione di Xi Jinping in Cina e della prima invasione russa del Donbas e della Crimea, l’inizio della “doccia fredda” per l’Occidente.

Quella notte del 24 febbraio scorso è stata un brusco risveglio. Di fronte alle bombe a grappolo a Mariupol e i corpi in strada a Bucha sembrano lontani, remoti i tempi di Pratica di Mare, quando Silvio Berlusconi, allora premier, sognava di archiviare la Guerra Fredda con una stretta di mano tra Putin e George Bush. La prossima illusione da scacciare, avvisa Borghi, “è scambiare per pace una temporanea sospensione delle ostilità”. Putin non si fermerà al Donbas, su cui sta per scatenare tutta la potenza di fuoco dell’armata rossa. “Dobbiamo rileggere la sua intervista al Financial Times sulla supremazia delle democrature e il discorso al Valdai Club: quella di Putin è una sfida all’Occidente”.

Una sfida più ampia – quella tra democrazie e autocrazie – è destinata a riscrivere la geografia politica del mondo. Sia sul fronte interno, tra forze politiche, e anche per questo, ricorda Gelmini, il ballottaggio di domenica in Francia tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen è “un appuntamento decisivo”. Sia sul fronte internazionale, come dimostra il riassetto a Nord della Nato con il probabile ingresso di Svezia e Finlandia. Che avrà importanti conseguenze per l’Italia, avvisa Minniti. “È il momento di rafforzare la frontiera meridionale, dal Mediterraneo Allargato ai Paesi del Golfo. Non possiamo lasciare questo ruolo solo alla Turchia”.


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