Guerra in Ucraina, elezioni francesi che potrebbero scuotere l’Europa intera. Non stupisce che in un quadro siffatto Draghi insista sulla necessità che la maggioranza di larghe intese continui la sua opera, e che l’unità politica seppur traballante finora raggiunta rimanga in piedi. Anche se per il futuro l’incertezza (data dalle elezioni) regna sovrana
Nella sua residenza umbra, in attesa del tampone negativizzante, Mario Draghi tira i fili del governo, testando se funzionano. Alcuni rispondono al comando, altri sono aggrovigliati e fanno fatica, qualcuno si muove a vuoto, una manciata risultano tagliati. È la condizione nella quale il presidente del Consiglio è costretto a muoversi e che proseguirà fino al termine della legislatura. SuperMario assicura di non essere stanco: nessuna stranezza, uno come lui una cosa del genere non può ammetterla. Ma che si stia logorando giorno dopo giorno è innegabile: i sintomi ci sono tutti e ben visibili.
È tuttavia evidente che il nodo della crisi sistemica italiana non riguarda il destino personale dell’ex presidente della Bce. “Un lavoro so trovarmelo da solo” vale come l’ormai famosissimo whatever it takes: un marchio di fabbrica e una ragione sociale del personaggio.
Il nodo riguarda la governabilità possibile del Paese, ora e dopo le elezioni politiche dell’inizio del prossimo anno. L’elemento che preoccupa più di tutti è il conflitto tra Russia e Ucraina. Come ormai molti osservatori segnalano, non ci sono le condizioni per arrivare ad una pace in tempi brevi anche perché nessuno, a partire da Putin e Zelenski e tantomeno Biden, lavorano a questo obiettivo. Perciò lo scenario più concreto è che la guerra si radicalizzi, cronicizzandosi. Il che significa una cosa precisa per tutti i governi europei, in attesa del ballottaggio francese che in caso di vittoria di Le Pen produrrebbe uno tsunami politico capace di minare alle fondamenta l’edificio europeo. La cosa precisa è che le economie continentali (e mondiali) risentiranno in modo negativo del crepitio delle armi, tagliando le percentuali di crescita, provocando ripercussioni non indifferenti sul tenore di vita di milioni di cittadini, mettendo a dura prova alcuni dei tratti basilari dei regimi democratici, a cominciare dalla convinzione che sostenere Kiev sia la cosa migliore per il futuro di tutti, e tenere a basso regime i condizionatori la mossa più adeguata per costringere Mosca a cessare l’invasione.
È un problema di conti. E sopratutto è un problema di mentalità e di tenuta delle opinioni pubbliche. I prossimi mesi saranno assai difficili e questo l’hanno capito tutti. Le sanzioni cresceranno d’intensità ma se Berlino si rifiuta di chiudere i rubinetti che fanno arrivare il gas dalla Russia (ed è non solo il governo ma pure i sindacati: il segnale più vistoso che i tedeschi non accettano ridimensionamenti dei loro standard di vita né tagli occupazionali) il risultato sarà obbligato: valanghe di euro che continueranno a finanziare Mosca; tonnellate di armi che aiuteranno Zelensky a combattere l’Orso russo. Risultato: guerra che prosegue. Per mesi, e forse chissà.
Non stupisce che in un quadro siffatto Draghi insista sulla necessità che la maggioranza di larghe intese continui la sua opera, e che l’unità politica seppur traballante finora raggiunta rimanga in piedi. Non può dire, lui che non si candida, che debba essere così anche dopo le elezioni. È sotto gli occhi di tutti che ciascuna metà campo, di centrodestra o di centrosinistra, non è in grado di reggere l’urto di un fase lunga e tortuosa di bassa crescita. Però è inutile azzardare previsioni: il quadro è troppo sfilacciato e i fattori di rischio troppo grandi.
Bisogna aspettare, anche scontando che non sia chiaro cosa. Nel frattempo le riforme chieste da Bruxelles per finanziare il Pnrr procedono a rilento. La giustizia è un terreno minato, il fisco – tanto per restare in tema – un campo di battaglia. Tutto questo congiura a rendere la villa umbra di Draghi un fortino assediato: altro che fili da tirare. Il bombardamento riguarda la postazione più delicata, quella del deficit. I partiti, in una forma o nell’altra, chiedono nuovi scostamenti che significano altri debiti per un Paese dove già gravano per il 147 per cento del Pil anche se, fortunatamente, in decrescita. Forse una parte è debito buono, secondo la distinzione che appartiene allo stesso Draghi. Ma se aumenta, e soprattutto se va in sussidi e non in forme di sviluppo, diventa per forza cattivo. È la ragione per cui SuperMario è contrario e con lui lo sono la Banca d’Italia e la Corte dei Conti.
Complicato dire come finirà; non inverosimile prevedere che il fortino si trasferirà a Palazzo Chigi (a proposito: auguri presidente di pronta guarigione) e resterà assediato senza sosta. Il petrolio comincia a scarseggiare; gli scontri e le polemiche dentro la maggioranza sonno inesauribili. Adesso ci sono le amministrative, poi la legge di bilancio. Il quadro politico interno e internazionale si va liquefacendo, diventa una palude con sabbie mobili crescenti. Per l’Italia la cosa giusta è salvare il soldato Draghi. Chissà chi lo vuole davvero.