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Guerra e aiuti. In Ucraina il dejavu della pandemia

Dopo le bombe, gli aiuti. In Ucraina va in scena un dejavu della pandemia. Man mano che la tempesta passa (o si sposta) inizia un’altra competizione, quella umanitaria, tra donatori e beneficiari. L’analisi del prof. Igor Pellicciari (Università di Urbino)

L’esplosione pandemica (Marzo 2020) e quella bellica (Marzo 2022) hanno in comune la parola Aiuto, tra le più ricorrenti rispettivamente dopo Virus e Guerra.

Il termine è onnicomprensivo, associato ad azioni tra le più disparate; sia per tipo di assistenza fornito che per caratteristiche di Donatori e Beneficiari coinvolti.

Il mare magnum di iniziative umanitarie e solidaristiche del settore privato e non governativo, (lodevole nelle intenzioni, non sempre nell’efficacia) è difficile da censire con esattezza e quindi anche da commentare nel suo complesso, senza un minuzioso lavoro di ricostruzione caso per caso.

Discorso diverso riguarda gli aiuti riconducibili a decisioni governative, crescente canale di relazione tra Stati sovrani, centrale nel definire equilibri nel sistema internazionale.

Il primo mese di guerra in Ucraina lo ha dimostrato a pieno, con fenomeni consolidati accanto a novità non casuali, destinate a lasciare il segno. L’aiuto si è confermato strumento chiave della politica estera di un Paese, secondo un trend di crescita ininterrotta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

In altre parole, un idea di aiuti a difesa degli interessi nazionali del donatore prima ancora che del beneficiario, utile nel promuoverli al pari di strumenti classici come la diplomazia, il commercio o la stessa azione militare.

Allo scoppio in Ucraina di una guerra vera, l’Occidente ha reagito subito restando sul terreno che gli è più congeniale della fornitura di assistenza. A differenza di quanto visto a suo tempo in Bosnia negli anni 90, la risposta di Ue e Usa è stata immediata fin dai primi giorni del conflitto, facilitata anche dalla preesistenza sul campo di reti di distribuzione consolidate in decenni di loro presenza locale come donatori.

Tuttavia, questa velocità di reazione cade solo un anno dopo che Bruxelles e Washington avevano disatteso le ripetute richieste di Kiev di ricevere dosi a sufficienza per vaccinare la propria popolazione, nel pieno della seconda ondata dell’emergenza pandemica.

Le diverse scelte seguite nei due casi dagli stessi Attori suggeriscono che oggi essi agiscano da donatori mossi da considerazioni geo-politiche e dalla prospettiva di perdere l’Ucraina (rischio per inciso assente con il Covid-19, per via della non disponibilità di Kiev a chiedere e di Mosca a concedere il vaccino russo Sputnik V).

Un altro esempio del legame primario tra politica estera e azione dello Stato\donatore sta nell’opposta reazione della Polonia nel giro di soli pochi mesi davanti ai profughi in arrivo dai suoi confini orientali.

L’ostinato respingimento di poche migliaia di siriani e l’accoglienza invece di milioni di ucraini non può essere letta come il risultato contraddittorio di politiche discriminatorie di Varsavia, come suggerito da alcuni.

È, piuttosto, l’ovvia decisione di convogliare aiuti su quei profughi che non sono minaccia diretta di condizionamento politico esterno come nel caso della nuova rotta migratoria che la Bielorussia minaccia di aprire nella speranza di ottenere un’assistenza finanziaria per gestirla, sul modello turco.

Sempre sul versante Occidentale, la crisi ucraina ha portato novità non tanto nelle concrete  politiche di assistenza quanto nel modo di raffigurarle alle proprie pubbliche opinioni. Benché gli esperti considerino aiuti tra Stati qualunque tipo di trasferimento a condizioni favorevoli tra donatore e beneficiario, la comunicazione istituzionale pubblica si è finora appiattita a considerare aiuto “vero” solo gli interventi di emergenza umanitaria e\o di cooperazione allo sviluppo.

In altre parole, trasferimenti di energia, finanza, know-how tecnologico e finanche armamenti sono stati spesso oggetto di interventi di assistenza, ma nella prassi tenuti quasi nascosti, accuratamente esclusi dal computo degli interventi ufficiali Oda (Official Development Assistance).

Oggi, nell’auspicare e parlare apertamente di fornitura di armi da dare al Beneficiario, i Donatori hanno dato una legittimità inedita a questo tipo di azione, facendone componente a pieno titolo delle politiche di Aiuto. Creando un precedente nel mettere sullo stesso piano aiuto buono e cattivo che farà storia e non resterà isolato.

Al netto di queste considerazioni,  la maggiore sorpresa odierna riguardante gli Aiuti di Stato nella politica estera sta nella stessa scelta del Cremlino di invadere militarmente l’Ucraina; azione sul cui piano a monte – nonostante quotidiani fiumi di parole in libertà e analisi a vista – l’Occidente ancora non riesce a farsi un’idea chiara.

Dopo avere visto Mosca per 20 anni investire ingenti risorse per accreditarsi come Re-emerging Donor sul multilaterale e bilaterale, si fatica a comprendere il senso odierno di una tale inversione totale di strategia. Che riporta a perseguire i propri obiettivi in politica estera con i cannoni invece che con la carota. O con il vaccino.

Non è infatti chiaro perché, solo pochi mesi dopo avere portato a segno importanti risultati diplomatici grazie allo Sputnik V usato come efficacie strumento di Aiuto geo-politico, si sia abbandonata quella strada come un ponte costruito a metà, almeno nei rapporti con l’Occidente.

Agli albori della crisi in Ucraina, nel saggio “Aiuti come Armi” (Limes 2\2015, pp.159-166) trattavamo del strutturato e non occasionale tentativo russo di esercitare la propria politica di potenza con lo strumento del dono, in linea anche con la tradizione sovietica.

Sette anni e una pandemia dopo, basta una semplice inversione del titolo di quel saggio (Armi come Aiuti) per fotografare senza spiegare un presente totalmente opposto. Che minaccia di diventare un instabile futuro di lunga durata.



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