L’Iran sta producendo uranio arricchito anche in impianti nascosti, dice il dipartimento di Stato, mentre una serie di esperti ed ex funzionari chiedono all’amministrazione Biden di accelerare l’intesa sul Jcpoa perché nel giro di “una o due settimane” Teheran potrebbe essere in grado di produrre una bomba. Il nodo Pasdaran pesa sullo sfondo
Un gruppo di 40 ex funzionari governativi e importanti esperti di non proliferazione degli armamenti ha esortato l’amministrazione Biden a stringere rapidamente per un’intesa sui negoziati con cui tornare all’accordo nucleare con l’Iran, noto internazionalmente con l’acronimo Jcpoa, avvertendo che Teheran è a una settimana o due dalla produzione di uranio di grado militare sufficiente per alimentare una bomba atomica.
In una lettera aperta sostengono che il fallimento nell’invertire le politiche dell’amministrazione Trump, che si è ritirata dall’accordo tra le potenze mondiali e l’Iran nel 2018, sarebbe “irresponsabile” e “aumenterebbe il pericolo che l’Iran diventi uno stato con armi nucleari”.
Ossia: ora o mai più. Il timore è che se la Repubblica islamica acquisirà le capacità militari, a quel punto non ci sarà spazio per negoziare. D’altra parte, c’è chi sostiene che Teheran – che accusa gli Stati Uniti di far slittare l’intesa – in realtà sta rallentando i negoziati per arrivare a ottenere una percentuale di arricchimento che possa fare da game changer, e dunque chiedere di più.
Tra i firmatari della richiesta all’amministrazione statunitense ci sono esperti di Iran come Ali Vaez dell’International Crisis Group, che ai tempi del Jcpoa contribuì in prima persona alla stesura del testo dell’accordo; Trita Parsi, politologo iraniano ora vicepresidente del Quincy Institute e prima all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu; Jessica Matthews, ora al Carnegie Endowment e prima vice sottosegretaria per gli Affari globali al dipartimento di Stato.
Si tratta di una serie di figure che hanno sempre avuto posizioni favorevoli al recupero delle relazioni con l’Iran, sia come forma di costruzione di un’architettura di sicurezza regionale – che passava dal congelamento del progetto di nuclearizzazione iraniano – sia come necessità per sganciare il Paese dalle istanze più radicali (e renderlo con questo re-integrabile nel sistema, anche economico, occidentale).
Le stesse ritengono che con l’uscita degli Usa dal Jcpoa si sia aperta la strada ai conservatori e alla costruzione di posizioni ultraconservatrici in Iran che rischiano di archiviare anni di posizioni pragmatico-riformiste come quelle dell’amministrazione Rouhani (che tra le varie cose nel 2015 firmò l’accordo nucleare), e aprendo ulteriormente il campo ai radicali della teocrazia (come le Sepah).
Da mesi si negozia la possibilità di riattivare il Jcpoa con sentimenti altalenanti: ci sono stati momenti in cui un accordo sembrava vicinissimo, altri in cui si credeva che l’alchimia diplomatica si fosse rotta. Con realismo, chi è a conoscenza dei negoziati fa segnare adesso un crescente pessimismo sul fatto che un nuova intesa possa essere raggiunta. L’accordo del 2015, in base al quale l’Iran ha fortemente limitato il suo programma nucleare e si è sottoposto a rigorose verifiche internazionali in cambio della revoca delle sanzioni statunitensi e internazionali, potrebbe non esistere più in futuro se nei talks che si tengono a Vienna non si arriverà a una soluzione.
Il punto adesso è questo: durante un anno di colloqui, l’Iran e gli Stati Uniti hanno negoziato indirettamente – attraverso la staffetta diplomatica garantita dagli europei al tavolo – concordando una bozza di testo su cui resta una lacuna finale che non ha nulla a che fare con l’accordo nucleare stesso. L’Iran chiede che gli Stati Uniti eliminino tra le varie sanzioni (riattivate dopo l’uscita decisa dall’amministrazione Trump) la designazione di organizzazione terroristica contro le Sepah, il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane (Irgc).
Per Washington sarebbe politicamente insostenibile. Le Irgc, note anche come Pasdaran, sono il corpo militare teocratico che per la Repubblica islamica ha un valore centrale, ma sono anche uno stato-nello-stato responsabile di tanti dei mali dell’Iran (la corruzione, il sistema clientelare interno, decisioni scorrette di vario genere). Inoltre sono l’entità che conduce da anni la campagna di influenza iraniana nella regione, e altrove, attraverso la creazione e l’affiliazione di un network di milizie, fomentate con l’ideologia sciita e controllate con le forniture di milioni di dollari, utilizzate per attività di influenza e destabilizzazione. Molti di questi affiliati, come gli Hezbollah libanesi, sono stati colpevoli di attacchi terroristici; in diversi casi sono stati aiutati dai Pasdaran.
È in corso uno sforzo diplomatico per cercare di persuadere gli Stati Uniti ad offrire una parziale revoca della designazione dell’Irgc – di carattere simbolico, dice chi la progetta – e nel sollecitare Teheran a ricambiare con concessioni su aree di preoccupazione degli Stati Uniti al di fuori dei parametri dell’accordo nucleare: tra queste proprio il sostegno alle milizie straniere che agiscono per procura e il blocco del programma di missili balistici.
All’interno dell’amministrazione, c’è un accordo diffuso sui pericoli del mancato rinnovo dell’accordo, ma differenze significative sul fatto che il rischio nucleare superi il campo minato politico. A Capitol Hill, praticamente tutti i legislatori repubblicani e molti democratici hanno espresso la loro opposizione a qualsiasi accordo con l’Iran, disapprovazione che si è intensificata con le notizie che l’amministrazione ha preso in considerazione la revoca della designazione di terrorista dell’IRGC.
La dichiarazione degli esperti non menziona direttamente la designazione terroristica, ma nota che “alcuni nel Congresso stanno minacciando di bloccare” l’attuazione dei “passi necessari per riportare l’Iran sotto i limiti nucleari stabiliti dal Jcpoa”. È un gioco delle parti. Nei giorni scorsi, il dipartimento di Stato ha reso pubblico un report in cui valuta l’Iran sulla corsa all’arricchimento e prende in considerazione la possibilità che alcune aliquote di materiale fissile arricchito (e alcune centrali e centro operativi) siano nascosti e “non dichiarati” – anche perché attualmente, per ritorsione, Teheran non permette ai tecnici dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica di effettuare controlli nel Paese.
C’è una soglia: 25 chilogrammi di uranio, che l’Iran potrebbe produrre in forma arricchita a percentuali militari molto rapidamente. I firmatari della lettera sostengono che la “massima pressione”, la strategia adottata da Donald Trump dopo l’uscita dal Jcpoa per sanzionare l’Iran, che era stata pensata con lo scopo di ottenere un “migliore” o “più completo accordo”, “non solo non ha prodotto i risultati promessi, ma ha anche aperto la strada all’Iran per prendere misure per violare i limiti nucleari del Jcpoa e accelerare la sua capacità di produrre materiale nucleare per una bomba”.
Questa posizione critica rispetto alla decisione di Trump è in piedi ormai da quattro anni: in questo periodo l’Iran ha sempre tenuto alta la propria resilienza e cercato di dimostrare che non è intenzionato a cedere per primo. Biden da parte sua ha sempre sostenuto la necessità di tornare a una compliance organica dell’accordo con Teheran, ma contemporaneamente ha dimostrato di non essere intenzionato a bruciare tappe che potrebbero compromettere la stabilità regionale e soprattutto creare problemi agli Stati Uniti con i propri alleati nell’area – le monarchie sunnite del Golfo e lo stato ebraico d’Israele, considerati nemici esistenziali dagli iraniani.
(Foto: www.kremlin.ru)