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L’incerta politica economica del Paese non aiuta lo sviluppo. Scrive Zecchini

Il governo ha cercato di offrire punti fermi di riferimento per imprenditori, lavoratori e famiglie impegnandosi nel Pnrr, nel superamento della pandemia e nella digitalizzazione con un occhio attento alla protezione dell’ambiente. Da ultimo, tuttavia, mostra crescenti difficoltà a dare certezze sul percorso da seguire per portare il Paese fuori dal declino in quanto subisce deviazioni di percorso e ritardi di esecuzione ed attenuazioni della spinta riformatrice

In tempi di grandi sconvolgimenti dovuti a persistenza della pandemia, guerra nell’Est europeo, rivoluzione tecnologica e industriale, e pervasività dei social media il Paese, inteso come insieme di parlamento, governo, forze politiche e sociali, non offre all’economia nessun punto fermo di orientamento su come procedere per cavalcare il cambiamento piuttosto che essere travolti dallo stesso. Nessuna di queste parti sembra comprendere la necessità di doversi adattare a profondi cambiamenti, anche nelle istituzioni che hanno segnato l’evoluzione nei passati 70 anni. Con un Parlamento disfunzionale, un’amministrazione pubblica poco efficiente e poco preparata a sfruttare i progressi tecnologici, la burocrazia opprimente, la carenza di competenze e le rigidità nel mondo del lavoro, il deficit di concorrenza nell’economia, la finanza pubblica dissestata, un welfare costoso e squilibrato e la gabbia di vincoli normativi e regolatori gestita da un sistema giudiziario inadeguato, governare il Paese verso un maggior benessere è una sfida quasi impossibile.

Il governo ha cercato di offrire punti fermi di riferimento per imprenditori, lavoratori e famiglie impegnandosi nel Pnrr, nel superamento della pandemia e nella digitalizzazione con un occhio attento alla protezione dell’ambiente. Da ultimo, tuttavia, mostra crescenti difficoltà a dare certezze sul percorso da seguire per portare il Paese fuori dal declino in quanto subisce deviazioni di percorso e ritardi di esecuzione ed attenuazioni della spinta riformatrice.

Un esempio viene dall’ultimo Def, benché nelle intenzioni si dichiari di ispirarsi a cautela nell’impostazione della politica di bilancio. Il quadro tendenziale di crescita, inflazione e occupazione, che viene inizialmente presentato per il triennio 2022-2024, è favorevole pur in presenza di revisioni al ribasso rispetto a quello della Nadef. Il Pil è previsto che aumenti del 2,9% quest’anno e scenda gradualmente fino a un incremento dell’1,5% nel 2025. La molla dell’espansione è individuata principalmente nei consumi interni, rafforzata da quella degli investimenti in mezzi di produzione e costruzioni sulla spinta dei progetti del Pnrr. La spesa per investimenti si porterebbe al picco del 2007 (21% del PIL) e il tasso di risparmio delle famiglie scenderebbe al basso livello di fine 2019, che non può non apparire poco realistico in un periodo di crescente incertezza.

In un quadro di rischi accentuati, tuttavia, il governo si prefigge di dare nuovo stimolo alla crescita con maggiori sostegni alle famiglie e agli investimenti, che dovrebbero rialzare il Pil al 3,1% nel 2022 e al 2,4% l’anno prossimo e che dilaterebbero il deficit pubblico al 5,6% e al 3,9% del Pil rispettivamente nei due anni. È una manovra rischiosa che potrebbe rivelarsi dannosa per il riequilibrio dei conti pubblici alla luce dell’instabilità del contesto politico ed economico di cui lo stesso governo è consapevole al punto da presentare due scenari alternativi in senso sfavorevole. In particolare, nel caso di carenze nell’approvvigionamento energetico l’andamento dell’economia si appiattirebbe nei prossimi due anni su ritmi prossimi a zero.

Ma in queste evenienze il governo è pronto a sostenere l’espansione economica con interventi più consistenti di quelli programmati, dando apparentemente rassicurazioni agli operatori economici. In realtà, questa impostazione della politica economica risulta chiaramente aleatoria per diversi motivi, tra cui l’ammissione che lo stesso MEF implicitamente fa, quando a margine dei suoi esercizi previsionali dice che il suo modello (leggi: le sue previsioni) non è in grado di cogliere i cambiamenti prodotti da “shock di prezzo della dimensione e durata considerata”.

Vi sono ben più importanti motivi che inducono a considerare molto incerti tanto l’evoluzione dell’economia, quanto lo spazio di manovra del Governo per attutire gli shock in corso. Già nel primo trimestre dell’anno la produzione è arretrata e i primi segni del secondo trimestre vanno nello stesso senso. Il principale fattore d’incertezza è, peraltro, l’orientamento che la politica monetaria tende ad assumere di fronte a un’inflazione 5 punti percentuali al di sopra dell’obiettivo e giudicata ormai persistente dalla Bce per almeno un biennio.

In seno al consiglio direttivo della banca centrale le voci per porre fine al Quantitative Easing e aumentare i tassi guida si sono fatte più forti ed insistenti al punto che la presidente Lagarde non esclude più che dopo la fine del QE nel giugno prossimo i tassi guida possano essere aumentati senza indugi. Per la Germania e i paesi del centro-nord dell’area dell’euro un’inflazione al consumo al 7,9% e oltre nello scorso marzo è un evento inaudito dalla crisi petrolifera del 1971-72, un evento che benché innescato dal rialzo dei prodotti energetici e primari, non è accettabile per periodi non brevi. Oltreatlantico, in presenza di un’inflazione oltre 8% la Fed ha ormai segnalato che intende elevare il tasso sui Federal Funds in maniera relativamente rapida e non è escluso che raggiunga due e mezzo o tre per cento entro fine anno. Una divergenza accentuata con i tassi sull’euro non sembra sostenibile nel tempo perché i mercati finanziari tra le due spone dell’atlantico sono interconnessi al punto che movimenti di capitali verso gli USA porterebbero i tassi sugli strumenti finanziari europei verso livelli non distanti da quelli americani.

Molto importanti sono anche altri due motivi di cui si parla poco. La politica del Governo di compensare i rincari petroliferi per imprese e famiglie ha il fiato corto, in quanto le ragioni di scambio con i paesi esportatori di combustibili e materie prime si sono spostate a loro vantaggio e quindi un trasferimento di risorse prima o dopo è inevitabile e deve necessariamente coinvolgere la maggioranza degli utilizzatori. Le risorse del bilancio pubblico non sono sufficienti a sostenere a lungo compensazioni di questo genere e sono illogiche perché sostengono un sistema di prezzi relativi divenuto irrealistico, mentre tutti dovrebbero adattarsi a prezzi energetici e primari più alti. Giustamente il parametro di riferimento per gli adeguamenti salariali all’inflazione si basa sull’indice Iapc che esclude i prezzi petroliferi.

Né fa molto senso argomentare che finora nell’area dell’euro, diversamente dagli Usa, questi rincari a livello di produzione non si sono tradotti in analoghi rialzi al consumo e nelle retribuzioni dei lavoratori, perché rincari dei prezzi alla produzione giunti al 31,4% su base annua nel febbraio scorso ben difficilmente possono rimanere a carico delle imprese. Verranno, invece, traslati ai consumatori entro periodi variabili e, una volta a livello di utilizzatori finali, è poco probabile che vengano riassorbiti nel caso in cui l’inflazione rallentasse. Piuttosto, daranno origine a nuove richieste salariali.

Grande incertezza avvolge l’andamento del rapporto debito pubblico/Pil e la sua sostenibilità nei prossimi anni quando la Bce stringerà i freni monetari. Le previsioni del governo sulla discesa del rapporto al 147% quest’anno e 145,2% nel 2023 come la stabilità della spesa per il servizio del debito al 3,5% e la sua discesa al 3,1% nel 2023 appaiono alquanto ottimistiche. Non è nemmeno tranquillizzante l’obiettivo di abbassarlo al 141,4% nel 2025, livello ancora nettamente superiore a quello del 2019. Certamente l’inflazione al consumo gonfia meno il deflatore del Pil, perché nel conteggio non recepisce l’impatto diretto del rialzo dei prezzi all’importazione. Ma nella prospettiva del quinquennio, i riflessi inflazionistici si avvertiranno nella dinamica dei prezzi interni. L’inflazione incorporata nel Pil nominale e quella derivante dalla lievitazione delle entrate tenderanno a sgonfiare il rapporto debito/Pil, ma anche la spesa pubblica tenderà a lievitare gonfiando lo stesso rapporto. Quale di questi effetti prevarrà è incerto.

In ogni caso, nel Def non si può affermare che il debito pubblico italiano è sostenibile, perché la sua sostenibilità è come i fenomeni della meccanica quantistica (principio di sovrapposizione): nessun può dire che lo sia se non ex post in quanto ex ante può essere sostenibile ed insostenibile allo stesso tempo. Sono i mercati finanziari, in assenza dell’intervento della BCE, che lo diranno. Molto dipenderà dall’impatto delle riforme sulla crescita del Pil, sulla produttività e sulla ripresa demografica, oltreché dallo “snowball effect” che tiene conto della spesa per interessi, della dinamica del Pil reale e dei tassi d’inflazione.

Nel Def si considerano scenari alternativi di discesa del rapporto basati su ipotesi di miglioramento del quadro economico e di effetti diverse delle riforme strutturali programmate. Soltanto nell’ipotesi in cui le riforme producessero pienamente i risultati auspicati il rapporto scenderebbe al livello del 2019, ma nel 2033, mentre con ipotesi meno ottimistiche dopo una discesa fine al 2026 risalirebbe verso il 150%. Nella realtà attuale, invece, le riforme accusano ritardi, quella della giustizia stenta a ottenere l’approvazione parlamentare, quella della concorrenza è in un limbo di compromessi al ribasso come quella del catasto, quella degli appalti è ancora da completare, mentre un flusso crescente di risorse è destinato ad assistenza e al welfare piuttosto che a rafforzare il potenziale produttivo.

La qualità delle riforme e la loro effettiva applicazione sono essenziali per generare maggior crescita, ma su di loro gravano molti dubbi. I decreti attuativi si moltiplicano ma non apportano quella semplificazione degli adempimenti che darebbe slancio alle iniziative imprenditoriali. I finanziamenti per i progetti del Pnrr non mancano, ma la loro attuazione si rivela difficile. L’anno scorso si è riusciti a spendere soltanto il 37% dell’ammontare preventivato. I progetti degli enti territoriali non decollano per carenze di progettazioni esecutive e l’impreparazione delle amministrazioni locali a gestirli dalla fase di aggiudicazione fino al completamento. Secondo l’Ance, l’80% di un campione di progetti non è ancora pronto per l’apertura del cantiere.

Il cauto ottimismo profuso nel Def, pertanto, non può tranquillizzare gli operatori economici, ma li induce a maggior prudenza nelle loro scelte di produzione ed investimento, col risultato di tarpare le ali alla crescita tanto agognata.



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