Dal motore franco-tedesco al Trattato del Quirinale fino alla Nato e il legame transatlantico. La conferma di Macron porta con sé tante incognite, anche per l’Italia. Il commento dell’ambasciatore Giovanni Castellaneta
Una vittoria dell’“usato sicuro”? L’espressione può apparire eccessivamente tranchant, ma la permanenza di Emmanuel Macron all’Eliseo è il frutto di un bilancio sostanzialmente positivo di questa presidenza e spiegabile più attraverso i timori dell’elettorato francese di fare un “salto nel buio” affidandosi a Marine Le Pen che dal genuino sostegno al presidente uscente.
Del resto, anche se le probabilità di rielezione di Macron si sono fatte via via più chiare nelle due settimane successive al primo turno, l’impossibilità di bissare l’exploit del 2017 è stata chiara fin da subito nonostante l’incognita immanente dell’astensionismo.
Si può dire che il successo di Macron, artefice di un centro “pigliatutto” con il suo La Republique En Marche, abbia avuto un punto debole nell’erosione del fronte “repubblicano”: la “rottamazione” dei partiti tradizionali (gollisti e socialisti) ha esposto i moderati francesi ad una crescita progressiva delle ali estreme, non solo a destra con il Rassemblement National di Le Pen ma anche a sinistra con La France Insoumise di Mélenchon, ridimensionando anche il partito dei Verdi Ecologisti, di questi tempi oramai out of touch.
Una “emorragia” di voti dal centro che in questi anni è stata acuita dalle “carenze” personali di Macron: la sua difficoltà di parlare alla Francia più “profonda”, lontano da Parigi e dalle altre grandi città più aperte e di far sognare gli elettori più giovani , lo ha mantenuto distante da buona parte della popolazione.
Un atteggiamento “elitario” che, anche se frutto della sua indiscutibile competenza e professionalità (testimoniata anche dal suo curriculum precedente alla sua discesa in politica), ha contribuito ad oscurare gli ottimi risultati raggiunti dalla Francia in campo economico durante il suo primo mandato: la crescita media più alta nell’eurozona, la riduzione della disoccupazione, e più recente il contenimento dell’inflazione, nonché una dinamica gestione della presidenza di turno della Ue di questo semestre. Un “record” invidiabile, che però la scarsa empatia del Presidente con ampie fasce del Paese ha offuscato mettendone a rischio la rielezione.
L’ultimo faccia a faccia di mercoledì sera non sembra avere spostato le intenzioni di voto in maniera decisiva. Macron ha confermato il suo atteggiamento quasi “professorale”, il che non gli servirà a “scaldare i cuori” di tutti coloro che, fino ad ora, non lo hanno votato: i giovani, che sembrano essere stati conquistati maggiormente dal radicalismo di Mélenchon, ma soprattutto le persone che non fanno parte della classe media che rappresenta lo zoccolo duro del Presidente in carica.
Dal canto suo, neppure la performance di Le Pen sembra essere stata in grado di convincere eventuali indecisi: il suo voler apparire rassicurante – essendosi in parte contraddetta rispetto a suoi “cavalli di battaglia” come l’anti-europeismo e il sostegno alla Russia di Putin, e la negazione della sua presunta dipendenza da una banca russa per un prestito acceso a suo tempo con questo istituto, potrebbe infatti rivelarsi un boomerang.
Perché infatti cercare di virare al centro quando questa parte di elettorato è già dominata da Macron? Del resto, il programma elettorale del Rassemblement National, pur avendo abbandonato esplicitamente proposte che porterebbero ad una “Frexit”, in realtà non si discosta molto dalle proposte tipiche della Destra sovranista che sarebbero un’anticamera alla disgregazione del Mercato Unico.
Che scenari si aprono dunque con la vittoria di Macron, prevedibile ma meno ampia di quanto l’inquilino dell’Eliseo avrebbe auspicato? Di sicuro ci potrà essere un nuovo slancio per l’integrazione europea, favorendo una conclusione positiva del semestre francese di presidenza del Consiglio dell’Ue.
Tuttavia, è possibile immaginare un cambiamento degli assetti di potere e delle alleanze: parlare di “motore franco-tedesco” sembra ormai anacronistico, alla luce di un probabile ridimensionamento di Macron e della fine della leadership di Angela Merkel, sostituita da un Olaf Scholz che non sembra al momento possedere lo stesso carisma di chi lo ha preceduto.
Inoltre, l’uscita del Regno Unito non consente più di puntare su un asse alternativo Roma-Londra che in passato aveva agito da contrappeso all’intesa tra Parigi e Berlino. Questo panorama in mutamento non significa però che ci sarà una battuta di arresto a livello Ue: al contrario, si potrebbe aprire una fase più condivisa per dare vita a cooperazioni rafforzate in settori come Difesa e politica estera, divenuti prioritari alla luce della attuale situazione internazionale, attraverso meccanismi che possano prescindere dalla ricerca dell’unanimità a ventisette.
Una situazione in cui l’Italia potrebbe trarre importanti vantaggi, sfruttando l’autorevolezza di Mario Draghi che, insieme all’efficace “tandem” con la Farnesina dell’oramai esperto ministro Luigi Di Maio, ha ribadito le posizioni convintamente atlantiste ed europeiste del nostro Paese.
Il trattato del Quirinale con la Francia, la maggiore vicinanza con Germania e Spagna potrebbero alla fine consentire all’Italia di mettere in moto un quadrigetto in sostituzione del vecchio bimotore franco-tedesco che dia nuovo impulso alla Unione Europea e la prepari al dopo guerra in Ucraina ed alla scossa di una futura Confederazione Europea di trentasei paesi (27 + 9) che probabilmente nei prossimi anni rimodellerà la costruzione europea creando vari livelli di integrazione e decisionali.