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La Quinta Repubblica è tramontata, Macron non costruirà la sesta

Con il voto di ieri si può dire che la Quinta Repubblica non esiste più. I suoi pilastri, neo-gollisti e socialisti, sono miseramente crollati. Tra cinque anni Macron darà l’addio alle armi. Qualcosa farà. Di lui resterà l’ombra di uno Jupiter che non ha compreso la Francia, ma l’avrà malamente governata. Anche la democrazia genera sovrani. Spesso tuttavia si sbaglia. L’analisi di Gennaro Malgieri

Che il “campione” dell’estrema sinistra, Jean-Luc Mélenchon, debba far vincere il “Presidente dei ricchi” (come per cinque anni l’ha apostrofato) Emmanuel Macron, dá un senso grottesco all’ elezione presidenziale francese.

L’endorsement del leader di France Insoumise, una sorta di alleanza di sinistra nella quale hanno confluito anche i socialisti, spariti come partito, toglie ogni dubbio a chi finora ne ha nutrito qualcuno sulla “rimonta” di Marine Le Pen distaccata di circa quattro punti dal presidente uscente.

Nel suo reiterato appello agli elettori che lo hanno votato contro la bionda signora della destra, ormai alla terza prova presidenziale – “neppure un voto a Marine Le Pen”, ha strepitato – Mélenchon ha fatto il suo dovere di sanculotto smentendo se stesso rispetto a cinque anni fa quando decise di non dare indicazioni di sorta. Egli ha supplito alla mancanza di un organico “Fronte repubblicano” che per la prima volta non si è formato per sbarrare la strada ad un candidato di destra. Può, dunque, andare fiero del suo terzo posto che non è stato una sorpresa, ricordando che anche nella passata tornata ebbe lo stesso risultato con qualche decimale in meno.

Dunque, se per disposizione di Mélenchon la Le Pen tra quindici giorni non andrà votata, logica vuole che molti dei consensi di quella parte politica andranno al presidente-candidato, mentre qualcuno se ne starà a casa non sentendosi rappresentato da nessuna delle due offerte politiche.

Come Mélenchon giustificherà la propria incoerenza sono fatti suoi, ma vorremmo sommessamente far notare a qualche intellós “al di là della destra e della sinistra” che alla vigilia, per dare consistenza al suo granitico impegno anti-sistema, ha dichiarato che avrebbe votato Mélenchon al primo turno e la Le Pen al secondo, che con azzardi del genere non si costruisce un bel niente in politica che impone invece di schierarsi con chiarezza. È quanto meno bizzarro il modo di interpretare un esoterico “nazional-bolscevismo” in pieno Ventunesimo secolo, mentre la sola idea antisistema ci appare sempre di più quella che potremmo definire nazional-conservatrice, incistata nei valori identitari e sociali lontani dalle sofisticherie che poco hanno a che fare con la politica e semmai qualcosa con la speculazione filosofica.

Macron, dunque, dovrebbe essere l’uomo da battere. La Le Pen è già battuta, con ogni probabilità. Al ballottaggio può contare sul 7% di Éric Zemmour e sul 2,1% di Dupont- Aignan. Il suo competitore che parte dal 27,4 (qualcuno sostiene il 28%, in queste ore ancora di assestamento) può contare su buona parte della sinistra, da France Insoumise alla citata Hidalgo, sindaco di Parigi, da Yannick Jadot ecologista a Fabien Roussell comunista, alla gollista (delusione delle delusioni) Valérie Pécresse che con il suo striminzito 4% ha portato nella polvere quel che restava dei Républicains, gli eredi di una grande tradizione politica, il cui ultimo capo riconosciuto, Nicolas Sarkozy si è apertamente schierato in favore di Macron: l’establishment è molto vasto e variegato in Francia.

Con il voto di ieri si può dire che la Quinta Repubblica non esiste più. I suoi pilastri, neo-gollisti e socialisti, sono miseramente crollati. I comunisti hanno fatto la stessa fine di un’antica, ancorché marginale presenza, almeno dal 1972, restano gli eredi del Front National, spaccati tra il Rassemblement della Le Pen e Reconquête di Zemmour.

Ci si chiede quale sarebbe stato l’esito del primo turno se per tempo, senza dunque odiarsi, ma trovando le coordinate per stare insieme pur preservando le loro rispettive identità politico-culturali, la Le Pen e Zemmour avessero stipulato un onorevole patto volto a raccogliere tutto ciò che a destra vive e si muove, anche a livello larvale, in Francia, dagli scontenti dei Républicains (i molti voti perduti a qualcuno saranno pure andati…) a Dupont-Aignan ai gruppetti nazionalisti e agli intellettuali che si sono riconosciuti nel passato nella Nuova Destra.

Non è bizzarro ritenere che se un’operazione del genere fosse stata sperimentata, i due candidati sarebbero risultati quantomeno appaiati (come peraltro i sondaggi li davano) e la partita finale sarebbe stata giocabilissima.
Ma il destino della destra francese non muta. Dai tempi di Charles Maurras, la tabe della divisione la mina profondamente. E se neppure contro un esponente del “partito dei ricchi”, del sistema di potere eterno ed inviolato negli ultimi cinquant’anni, di un vanesio che crede di incarnare non più lo spirito della Francia ma quello dell’Europa, che nell’ultimo mese e mezzo ha parlato più con Putin che con i suoi connazionali, vuol dire che la destra, per l’ennesima volta, è da rifondare. La Le Pen, come ha annunciato, non si candiderà più; Zemmour non sappiamo che cosa farà: probabilmente ha più lettori che elettori e dunque, meglio che scriva libri piuttosto che arringare le folle che è andato perdendo invece di consolidarle negli ultimi mesi. Altro non si vede.

Il leaderismo ancora una volta ha bloccato le alternative. Come in quasi tutti i partiti che non sono più le aggregazioni complesse e articolate del passato, ma forze “personali” guidate da capi soli al comando, sarà ben difficile trovare qualcuno che dia un’anima alla destra ed alla sinistra francesi.

Tra cinque anni Macron darà l’addio alle armi. Qualcosa farà. Di lui resterà l’ombra di uno Jupiter che non ha compreso la Francia, ma l’avrà malamente governata. Anche la democrazia genera sovrani. Spesso tuttavia si sbaglia.



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