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Musk e Twitter. Prima lo picchia, poi se lo compra

Il proprietario di Tesla entra nel social network con una partecipazione passiva del 9,2%, pari a 2,8 miliardi di dollari. Solo qualche giorno fa, chiedeva ai suoi followers se fosse il caso di creare una nuova piattaforma più democratica. Ma alla fine ne è diventato parte

Chi disprezza compra, ed Elon Musk non fa certo eccezione. Dopo tanto baccano contro Twitter, rea di non essere una piattaforma democratica, il ceo di Tesla è diventato membro della società con una partecipazione passiva del 9,2%, pari a 2,8 miliardi di dollari in base al prezzo di chiusura del social media venerdì scorso, diventando uno dei maggiori azionisti. Anche più dell’ex fondatore e proprietario Jack Dorsey, che deteneva una percentuale quasi quattro volte inferiore (2,5%). Per la Security and Exchange Commission (SEC), che ha rivelato la notizia in un suo documento, le azioni comprate da Musk ammonterebbero a 73.486.938. Una mossa inaspettata che ha visto le azioni Twitter schizzare al 25%, arrivando ad un valore di 49,40 dollari. Alla riapertura dei mercati, l’azienda ha guadagnato il 26,3% .

Questi i numeri, che tuttavia non riescono a spiegare il significato dell’operazione. Il 24 marzo, Musk aveva aperto un sondaggio proprio sul suo profilo Twitter per chiedere se l’algoritmo dovesse essere “open source”: l’82% aveva risposto di sì. Tra i commenti, anche quello di Dorsey che ha precisato come ad essere aperta a tutti dovrebbe essere “la scelta di quale algoritmo utilizzare (o meno)”. Il giorno dopo Musk ne apriva un altro, dove chiedeva ai suoi 80 milioni e passa di followers se Twitter fosse realmente democratico. “La libertà di parola è essenziale per una democrazia funzionante”, scriveva sul suo profilo domandando se il social fosse in linea con tale principio. “Le conseguenze di questo sondaggio saranno importanti”, continuava invitando a “votare con attenzione”. Se le persone abbiano o meno rispettato le indicazioni è impossibile dirlo, ma è indicativo che il 70% di loro abbia risposto in modo negativo. Così Musk ha colto la palla al balzo: “Dato che Twitter è di fatto una piazza pubblica, non rispettare i principi della libertà di parola mina fondamentalmente la democrazia. Cosa bisognerebbe fare? È necessaria una nuova piattaforma?”.

Parole che gli addetti ai lavori hanno immaginato fossero preparatorie al lancio di un nuovo social network su cui fosse possibile dire liberamente quello che uno crede, senza filtri. Non che esempi di questo tipo non esistono già, piuttosto bisogna vedere come funzionino. Truth, l’app dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, “nata per resistere alla tirannia della grande tecnologia”, si è rivelata un fiasco totale. Soprattutto, in un momento storico dove i social network sono sotto assedio per le loro mancanze in tema di filtraggio dei contenuti, i dubbi dell’imprenditore sudafricano sulla democraticità di Twitter erano già una sorpresa.

Anche perché è proprio grazie ai cinguettii che Musk ha potuto dire al mondo ciò che realmente pensava senza dover render conto a nessuno. O meglio, non sempre. Nel 2018, ad esempio, aveva affermato che stava valutando l’idea di privatizzare Tesla (rimuovendola dalla borsa di New York) e di aver già chiuso per un finanziamento da 420 dollari per azione. Data la loro crescita di valore, la SEC ha deciso di aprire un’indagine da cui è emerso che Musk non aveva firmato alcun accordo, e forse non ne aveva mai parlato con qualcuno. Uno scherzo finito male, che gli è costato 20 milioni di dollari e il posto da presidente dell’azienda. Si era anche detto disponibile ad anticipare i suoi tweet legati a Tesla, così che la Security Exchange potesse valutarli. L’imprenditore se l’è però legata al dito e giusto pochi giorni fa è tornato a pungolare la SEC, accusandola di perseguitarlo. “Non ho iniziato la lotta, ma la finirò”, twittava a febbraio chiedendo a un giudice di annullare il provvedimento di approvazione preventiva.

Ma di episodi dove Musk ha dato libero sfogo ai suoi pensieri ce ne sono tanti altri. Come nel caso della polemica con il senatore democratico Bernie Sanders, che insieme al suo partito chiedeva ai ricchi di pagare più tasse. Musk in quel momento aveva chiesto (sempre su Twitter, con cui evidentemente ha un rapporto di odi et amo) se avesse dovuto vendere il 10% delle sue azioni e la maggioranza dei followers aveva risposto in modo affermativo. In quei giorni ne aveva cedute tante per 6,9 miliardi di dollari e così, rivolgendosi con un tono scherzoso ma poco cordiale, aveva risposto sotto il tweet di Sanders: “Continuo a dimenticare che sei ancora vivo. Vuoi che venda altre azioni, Bernie? Devi solo dirlo…”.

Ad ottobre scorso, infine, se la prendeva con il World Food Programme. Il capo del WFP era convinto che il 2% della ricchezza di Musk (267,3 miliardi di dollari) potesse aiutare a risolvere la fame sul pianeta e l’imprenditore si era detto disponibile a donarli all’organizzazione purché gli spiegassero in che modo “come esattamente 6 miliardi di dollari risolveranno la fame nel mondo”. Insomma, l’ampio spazio che Twitter ha concesso a Musk non sembrerebbe proprio essere sinonimo di antidemocraticità. Forse è solo un altro suo tentativo mistificatorio per manipolare il mercato. Fatto sta che non ha creato alcuna nuova piattaforma per arginare lo strapotere dei social tradizionali, ma è entrato lui stesso a farne parte.

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