Fronte comune tra sindacati e Confindustria tedesca: no all’embargo contro il gas russo. Oltre la retorica, Vladimir Putin brinda più a Berlino che a Budapest: tra pressing della lobby industriale e litigi nel governo il cancelliere Scholz mette il freno e dà ossigeno a Mosca
Altro che Viktor Orban. Il vero cavallo di Troia di Vladimir Putin in Europa è la Confindustria tedesca (Bdi). Lunedì il capo del Cremlino è riuscito lì dove molti hanno fallito: l’unità tra sindacati e industria in Germania. Unità contro le sanzioni alla Russia, si intende. E in particolare le sanzioni sul gas, di cui imprenditori e dipendenti non vogliono neanche sentir parlare.
Il comunicato congiunto, una rarità, è di fatto la pietra tombale sulle pur timide intenzioni dell’Ue di passare ai fatti con le sanzioni all’energia di Mosca dopo il primo buffetto al carbone russo. Se l’embargo del petrolio resta sul tavolo, la messa al bando del metano è una chimera. “Porterebbe a una grave perdita di produzione, chiusure, una nuova deindustrializzazione e perdite di lungo periodo di posizioni di lavoro in Germania”, tuona il fronte unito tedesco. I numeri in effetti danno ragione alle remore: nel suo nuovo rapporto l’Imf ha rivisto a ribasso le stime di crescita dell’economia tedesca, dal 3,8% al 2,1%, un balzo di quasi due punti, più di quanto attende l’Italia (da 3,8% a 2,3%).
Ma dietro al pressing dell’industria tedesca c’è qualcosa di più di un semplice calcolo economico, che pure conta: nel 2021 ha esportato beni in Russia per 28 miliardi di euro. C’è un fattore culturale che risale alla Germania Ovest del dopoguerra, il Wandel durch Handel, che fa del commercio con Mosca un salvacondotto per evitare un conflitto sul suolo europeo. Non è bastata l’invasione russa a ribaltare l’equazione. E infatti il governo “semaforo” di Olaf Scholz, tra una condanna di Putin e una promessa di spendere di più nella Difesa, si trova impantanato.
A inizio aprile una delegazione di industriali – presenti Deutsche Bank, Mercedes-Benz e Siemens – ha fatto irruzione nell’ufficio del cancelliere per battere i pugni sul tavolo. Le sanzioni, questo il messaggio recapitato, rischiano di fare troppi danni all’economia tedesca. Danni “irreversibili”, hanno avvertito i giganti della chimica e dell’acciaio Basf e Thyssenkrupp, lì a ribadire che dall’embargo Ue il gas naturale russo deve restare fuori.
Scholz ha risposto con un pacchetto di aiuti finanziari e garanzie sui prestiti per 100 miliardi di euro. Oggi arriva in soccorso la Commissione Ue: semaforo verde a uno schema di aiuti di Stato da 20 miliardi di euro per “le aziende di ogni settore colpite dalla crisi in corso e dalle relative sanzioni”. Difficile che basti a placare la Bdi e la lobby filorussa dell’industria tedesca, per niente intorpidita dalle notizie dei massacri russi in Ucraina.
Basta osservare le mosse della più solida enclave filorussa, l’Associazione tedesca per gli affari orientali (Geba), settant’anni di storia alle spalle e decine di associazioni industriali membri, inclusa la Bdi. Saltato l’annuale incontro di inizio marzo con Putin – indifendibile ad invasione in corso – e fatta salva qualche presa di distanza in sordina, la lobby continua a tifare per la riapertura del mercato tedesco a Mosca perché, ha detto di recente il presidente Oliver Hermes, in gioco oltre le sanzioni ci sono “significative relazioni economiche con la Russia in futuro”.
Con un clima così, non stupisce che Scholz abbia tirato il freno. L’ultima conferenza stampa del cancelliere ha fatto molto rumore a Kiev, dove ormai Volodymyr Zelensky considera la causa tedesca una causa persa. È stata un’arringa: Scholz si è difeso un po’ goffamente da chi accusa Berlino di non inviare armi pesanti alla resistenza ucraina, “altri Paesi sono giunti alle stesse conclusioni”. Anche qui, i numeri contano più delle parole: dall’inizio delle ostilità la Germania ha messo sul piatto 119 milioni di euro in forniture belliche per Kiev, meno della minuta Estonia (220 milioni), del Regno Unito (204) e dell’Italia (150). Memo per il presidente ucraino in tenuta militare: Houston, abbiamo un problema. A Berlino prima ancora che a Budapest.