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Ma Putin non si fermerà al Donbas. Scrive Borghi (Pd)

Vladimir Putin non si accontenterà del Donbas. Perché la sua sfida è una sfida all’Occidente e a un pensiero, quello liberal-democratico, che ha vinto la prima manche della storia. Ora lo zar vuole riscriverla. Il commento di Enrico Borghi, responsabile Sicurezza del Pd e membro del Copasir

Di fronte al dramma della guerra in Ucraina la costruzione della pace è diventata un elemento essenziale e fondamentale per la nostra società. Ma se vogliamo essere concreti, e non prigionieri della nostra giaculatoria retorica, abbiamo il dovere di dire come la pace si possa costruire. Sapendo che essa non è solo l’assenza di una guerra armata, e che non ce la potremo cavare con quella che Emmanuel Monier ai tempi della Conferenza di Monaco definì come l’“utopia dei sedentari” e il “pacifismo dei tranquilli”, ovvero il fatto che qualcuno si incaricherà per noi di risolvere il dramma ucraino mentre distrattamente guardiamo le immagini televisive della tragedia delle fosse comuni e della pulizia etnica come se fossero fiction, per poi cambiare canale.

E avendo la consapevolezza di Aldo Moro, magistralmente descritta da Marco Follini nel suo ultimo “Via Savoia”, che non si può fantasticare di una politica disincarnata, consegnata solo alle buone intenzioni e ridotta a puro irenismo. Chi fa politica non sarà assolto dal tribunale della Storia se, di fronte al dramma della guerra, si sarà limitato a una rassegna di slogan, e alla declamazione retorica di un generica unità o rinconciliazione.

Chi ha responsabilità politiche deve, di fronte al dramma della guerra, scavarne fino in fondo le motivazioni per determinare delle risposte politiche nel concreto, al fine di consentire i necessari avanzamenti su basi reali e sull’eliminazione delle cause che hanno generato il conflitto. Se ci esercitiamo in questo indispensabile lavoro, e nel mentre manifestiamo il nostro desiderio di pace, dobbiamo comprendere i punti-chiave dei “perché” della guerra putiniana.

Perché se non facciamo questo, non si potrà raggiungere nessuna pace. E saremo tentati dalla seduzione più pericolosa, quella di scambiare per pace una resa, o una parziale cessazione delle ostilità per pace, o un “cessate il fuoco” per pace. Facendo, con ciò, lo stesso errore che Neville Chamberlain compì nel 1938 proprio a Monaco.
E nell’ andare a fondo delle motivazioni, comprenderemo che quello che noi – giustamente – definiamo un atto esecrabile e illegittimo come l’invasione in armi di un Paese indipendente e sovrano, per Putin è in realtà un momento preciso di una strategia e di un “Piano” che trova in un approccio ideologico la sua radice di fondo.

Basta rileggersi la famosa intervista al Financial Times dell’ottobre 2019 alla vigilia del G20 di Osaka, dove il presidente russo elogiava i movimenti populisti in Occidente e attaccava i governi liberali, definendo “obsoleta” la liberaldemocrazia. E individuava nei diritti civili, nella tutela delle minoranze e nella diversità di genere i segni della corruzione e della decadenza di un Occidente ormai consumato al proprio interno e pronto nel XXI secolo ad essere soppiantato dai modelli delle autocrazie, Russia e Cina in testa. Un’intervista che si chiudeva con un esplicito segnale agli Stati Uniti, finalizzato a ripristinare “le regole della Guerra Fredda”.

Basta riascoltare il discorso fatto al Valdai Club, sempre da Putin, a Soci nell’ottobre 2021, quando il presidente russo ammoniva che “la crisi che stiamo affrontando è concettuale e di civiltà”, che “l’attuale modello di capitalismo ha fatto il suo corso” e che “la dominazione occidentale degli affari internazionali sta cedendo il passo ad un sistema molto più diversificato”. Ma soprattutto “la storia politica non ha esempi di un ordine mondiale stabile stabilito senza una grande guerra e i suoi risultati, e l’attuale stato degli affari internazionali sono il prodotto del fallimento del dominio occidentale”.

Insomma, i binari ideologici della guerra in Ucraina erano già stati stesi sul terreno. Anche a noi ha fatto comodo fingere che non ci fossero. Del resto, serve qualcosa in più, a riprova del tasso ideologico della guerra, del fatto che il cosiddetto “capo negoziatore” russo per l’Ucraina, Vladimir Medinsky, sia una adepto convinto della teoria della “Russkji Mir”, ovvero della teoria per la quale la Storia mondiale sarebbe stata falsificata nel XVII secolo per cancellare il grandioso passato della Santa Madre Russia?

O serve ancora una volta richiamare il fatto che un ideologo del putinismo, Aleksandr Dugin, sia il filosofo della “Noomachia”, la corrente filosofia insegnata nelle università russe e mandata a mente dalle élite del potere moscovita e che tratteggia il concetto della guerra tra le civiltà, assegnando a quella russa la funzione di redentrice della Storia contro il corrotto liberalismo occidentale?

La guerra di Putin in Ucraina, insomma, è il frutto di questo portato ideologico, che mira attraverso il recupero del mito del superuomo (dove abbiamo già visto questo film?) a ripristinare la giustizia e a porre fine all’umiliazione del grande popolo e della grande civiltà russa. Quindi, il piano strategico di Putin non si ferma nel Donbass.

È uno scontro tra il “suo” modello, e il “nostro” modello. E mira a recuperare la logica della Guerra Fredda, e quindi dell’equilibrio tra i blocchi, delle sovranità limitate, della spartizione di aree di influenza. Tra la sua Russia e gli Stati Uniti d’America, concependo l’Europa come il grande territorio da nuovamente suddividere in sfere di sovranità.
Da questi presupposti ideologici, Putin fa discendere -e non poteva essere diversamente- la sua teoria del “lebensraum”, dello spazio vitale che abbiamo già sinistramente visto all’opera nel Novecento.

E mentre il “Lebensraum” di Adolf Hilter era la “spinta vitale verso Oriente”, quella di Vladimir Putin è l’opzione di ripresa in mano di quello che fu il perimetro geografico dell’Urss, tema che giustifica le sue aspirazioni di espansione territoriale. Un impianto ideologico su un perno geopolitico, in salsa nazional-imperialista: da questo cocktail esce la guerra in Ucraina.

Si illude chi pensa che con l’appello alle buone intenzioni o con le generiche richieste di non belligeranza, Putin si fermi. Egli persegue un obbiettivo preciso. Che non può non riguardarci, non foss’altro per il fatto che ci sono meno chilometri tra Leopoli e Trieste che fra Trieste e Palermo.

Perché dopo il Donbass e il Lungansk arriva la volontà di connettere le province dell’est con la Crimea; e poi in nome della russofonia si punterà al ricongiungimento territoriale con la Transnistria e-già che ci siamo- magari anche con la Moldavia (che non a caso a gennaio ha approfondito la cooperazione con la Nato). E a quel punto, chi impedirà a Putin di pensare a Kaliningrad come la novella Danzica, invocandone un nuovo corridoio che – del tutto incidentalmente – rientra nel perimetro di competenza dell’Alleanza Atlantica?

E di fronte a tutto questo, che chiama decisamente in causa tutto l’Occidente, per quanto tempo, ancora, con i nostri euro continueremo a foraggiare la macchina bellica, ideologica e propagandistica putiniana che punta deliberatamente a scardinare l’Unione Europea, a imporre un presunto modello di superiorità autoritaria su mezza Europa e a riportare il mondo alla teoria dei blocchi contrapposti.

Ogni metro cubo di gas che dalle steppe siberiane bruciamo in casa nostra è un aiuto oggettivo che va in questa direzione. Se non vogliamo – e non vogliamo – rispondere alla guerra con la guerra, e al tempo stesse se non vogliamo fare la fine dei “sonnambuli” della bella epoque descritti da Cristopher Clark, apparentemente vigili ma ciechi davanti al dipanarsi della Storia, dobbiamo agire.

Sapendo che siamo davanti ad una crisi delle strutture e ad una crisi dell’uomo. E che al bellicismo egemonico e al pacifismo utopistico branditi come strumenti ideologici, è bene mettere in campo un realismo politico, fondato su una concezione personalistica della Storia.

Come ogni guerra, anche questa ha prodotto la rottura di uno “status quo”. Cosa sarà il nuovo equilibrio mondiale, e come i nostri valori di pace, libertà, democrazia potranno allargarsi anzichè essere ristretti, dipenderà dal modo con il quale decideremo di agire anzichè rimanere cadere inertizzarti in una comoda e sterile sedentarietà.

Si pensi solo al nuovo ruolo tra Nord e Sud del Mondo, e tra Europa e Africa (con l’Italia e il Mediterraneo come naturale punto di congiunzione), che la guerra russo-ucraino può aprire. È la direzione da intraprendere, per sconfiggere la guerra davvero.


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