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Lasciate che il papa faccia il pontefice. La lezione di Albina e Irina

La condanna delle politiche di Putin e della violenza delle sue soldataglie deve essere netta e intransigente, ma non ci si deve lasciar trascinare acriticamente dalla russofobia della destra ucraina che sta invece prendendo piede nel discorso pubblico, anche a livello delle maggiori leadership europee. E quanto visto alla via Crucis lo dimostra, secondo Dario Quintavalle

Prima che scoppiasse la guerra, una delle ragioni che portavano gli analisti ad escluderla erano i forti legami di parentela tra russi e ucraini. Si calcolava che almeno un terzo dei russi avesse parenti in Ucraina, e che dunque il fratricidio sarebbe stato assai male accolto.

Gli ucraini sono rimasti pertanto molto delusi e sconcertati dal mancato supporto dei loro parenti in Russia: “noi non ci occupiamo di politica” è la risposta che una mia amica di Kiev si è sentita dare dai cugini di San Pietroburgo. Che sia autentica indifferenza, il lavaggio del cervello dell’onnipresente propaganda russa, o l’antica diffidenza di chi ha vissuto in Unione Sovietica per parlare troppo in libertà al telefono, difficile dirlo.

È certo però che esiste una frazione non indifferente di russi contrari alla guerra, e che i russi residenti all’estero da molto tempo (non ci sono solo gli oligarchi), sentono con imbarazzo quanto sta accadendo, anche perché ne percepiscono le conseguenze in patria. Se la guerra sta massacrando l’Ucraina, giova ricordarlo, sta anche rovinando la Russia e chiudendo i residui spazi di libertà che i russi si erano conquistati.

In questa guerra la diplomazia ha fallito – basta vedere i tweet incendiari di Josep Borrell che incita alla vittoria finale sul campo di battaglia – e anche alcuni uomini di chiesa non hanno fatto molto bene il loro dovere.

Il Patriarca di tutte le Russie (Ucraina compresa, dunque) Kirill ha benedetto da Mosca la guerra contro l’Occidente “schiavo delle lobby gay”. L’ortodossia soffre dell’eredità cesaropapista dell’Impero Bizantino (vale a dire del forte legame tra Chiesa e Stato) e al tempo stesso della sua tradizione territoriale e comunitaria. Kirill è il Patriarca di un impero che non esiste più e si trova spesso in imbarazzo tra la lealtà al potere del Cremlino, e quella alle comunità che compongono la sua Chiesa, distribuite su più stati, che possono, come in questo caso, entrare in conflitto.

Il Papa di Roma può parlare più liberamente, in modo universale ed ecumenico. Ma nemmeno questo sembra essere stato molto apprezzato. Il gesto di far portare la croce durante la Via Crucis al Colosseo, la sera del Venerdì Santo, a una russa, Albina e ad Irina, ucraina, entrambe infermiere, ed amiche, non ha avuto commenti molto favorevoli nella nazione in guerra, che, in quanto aggredita, dovrebbe logicamente guardare con favore a ogni iniziativa contro il conflitto.

L’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash, aveva espresso la sua netta contrarietà. L’arcivescovo maggiore Svjatoslav Ševčuk della Chiesa greco-cattolica ucraina non era stato da meno. Molte reti cattoliche in Ucraina si sono rifiutate di trasmettere l’evento. Pare che il Nunzio Apostolico a Kiev sia stato convocato per spiegazioni.

Come riporta la giornalista nazionalista ed ex Bocconiana, Olga Tokariuk su Twitter: “Tanta indignazione in Ucraina per l’idea di papa Francesco di far tenere insieme la croce alla Via Crucis all’ucraina Irina e alla russa Albina: è stato percepito come equiparare la vittima e l’aggressore, mentre l’invasione russa continua.

È troppo presto per iniziative di riconciliazione, hanno affermato i critici in Ucraina, aggiungendo che è stato come invitare uno stupratore e la sua vittima a tenersi per mano prima che fosse fatta giustizia. Sono stati fatti confronti con la seconda guerra mondiale: sarebbe stato giusto cercare di riconciliare nazisti ed ebrei durante l’Olocausto? La diaspora ucraina in Italia ha anche sollevato interrogativi sulla partecipante ucraina di questo evento, Irina. Hanno detto che nessuno nella comunità, che è affiatata, conosceva questa persona e lei non rappresentava il sentimento e l’atteggiamento dominante della comunità ucraina in Italia”.

A questa sorprendente reazione ci sono diverse spiegazioni. Come già spiegato in un altro articolo, la Chiesa Greco Cattolica è una chiesa uniate, cioè risultato della conversione dall’ortodossia al cattolicesimo. Il trasferimento della sede primaziale da Leopoli a Kiev, nel 2005, sotto Benedetto XVI, non ha certo migliorato i rapporti con Mosca.

Papa Francesco ha più volte condannato l’uniatismo come un metodo superato per garantire l’unità dei cristiani, preferendo un dialogo ecumenico diretto con il patriarcato di Mosca. Si può insomma dire che tra il Papa e il suo Arcivescovo maggiore i rapporti non siano buonissimi. Per di più le regioni dell’est dell’Ucraina, già appartenenti alla Polonia, sono quelle dove l’Ucraino è più parlato, e sono pure le più cattoliche.

Insomma, luoghi dove il cattolicesimo convive con la narrazione nazionalista e russofoba che vuole la Russia e la sua cultura come completamente estranee all’Ucraina. Una russofobia che si è espressa, nel corso della presidenza Poroshenko, in numerosi atti di limitazione all’insegnamento della lingua russa, ciò che è stato uno dei pretesti (non giustificazione, si badi: pretesto) offerti a Putin per la sua invasione. Il tema della lingua è stato utilizzato per dividere, anziché unire il paese. E non si capisce il perché: Irlandesi e Americani parlano tranquillamente inglese pur avendo lottato per la libertà dagli inglesi.

In Italia c’erano già 300.000 immigrati, provenienti quasi tutti da quel lato. Tollerano a malapena gli ucraini russofoni dell’est, figuriamoci l’amicizia tra una ucraina e una russa. Oggi soffrono legittimamente per il loro paese, ma occorre ricordar loro che sono scappati non dalla guerra dei russi, ma dalla povertà causata dalla corruzione delle élites dell’Ucraina. E i frequenti, inopportuni, paragoni all’Olocausto nazista non hanno attirato simpatia alla causa ucraina quando l’ebreo Zelensky ha parlato alla Knesset. Al contrario.

Albina e Irina hanno agito in piena libertà e coscienza, senza pretendere di rappresentare altri che sé stesse e la loro amicizia. Il Papa, Pontefice – costruttore di ponti per definizione – sta facendo il possibile per mantenere vivo il dialogo, per ricordare la comune umanità, sulla quale costruire una pace possibile. Dirgli che “è troppo presto per iniziative di riconciliazione” è come suggerire a un pompiere di attendere che l’incendio divampi ancora, prima di iniziare di spegnerlo.

Non c’è alcun dubbio su chi ha iniziato la guerra: ma come si può dire che l’iniziativa del Papa consista nell’equiparare la vittima e l’aggressore? Piuttosto, nella mente di chi lo critica, tutti i russi sono ugualmente aggressori e colpevoli.

Come ho già scritto, la condanna delle politiche di Putin e della violenza delle sue soldataglie deve essere netta e intransigente, ma non ci si deve lasciar trascinare acriticamente dalla russofobia della destra ucraina che sta invece prendendo piede nel discorso pubblico, anche a livello delle maggiori leadership europee. Di tutto abbiamo bisogno meno che di uno scontro di civiltà che criminalizzi indistintamente un intero popolo, la sua gente, la sua lingua e la sua cultura. Abbiamo bisogno di leaders che parlino di pace e di riconciliazione, ora e subito. E che l’unico a farlo sia Papa Francesco, e venga pure criticato per questo, è sconvolgente.


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