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Gli Stati Uniti aprono il fronte delle banche per Putin. Ma può non bastare

Il Tesoro americano ha imposto a JPMorgan di bloccare oltre 600 milioni di interessi, costringendo il Cremlino a pagare gli interessi sul debito con fonti alternative. E le grandi banche creditrici cominciano a rifiutare i pagamenti in rubli. Eppure, tra gas e petrolio, la Russia incassa ancora un miliardo al giorno dalla sola Europa

La Russia di Vladimir Putin rischia di rimanere strozzata dal proprio stesso debito, finendo con il morire per asfissia. Rischia, appunto, non è certo che accada. Premessa, fino ad oggi il Cremlino ha sempre onorato i propri impegni con i creditori internazionali, pagando le cedole legate alle emissioni di debito. E questo nonostante le molteplici minacce da parte dello stesso Putin, di liquidare gli interessi in rubli, piuttosto che in dollari.

Ora però la musica potrebbe cambiare, grazie a una combo potenzialmente micidiale, anche perché sono scesi in campo direttamente gli Stati Uniti, per mezzo del Dipartimento del Tesoro. Il quale ha deciso di bloccare tutte le operazioni della banca statunitense Jp Morgan incaricata di gestire i pagamenti in dollari dei bond russi emessi in valuta statunitense. L’ordine è arrivato dal ministero del Tesoro che ha disposto lo stop ai conti russi presso le banche statunitensi. Che cosa significa questo per la Russia?

In altre parole, gli oltre 600 miliardi di dollari in asset esteri detenuti dalla banca centrale russa sono, almeno per la quota detenuta negli Stati Uniti, congelati. Costringendo così Mosca a trovare fonti di finanziamento alternative per pagare gli investitori obbligazionari. In questo modo aumenta notevolmente il rischio di un potenziale default, poiché la Russia sarà nei fatti costretta a intaccare le riserve domestiche per pagare gli interessi sul debito.

L’altra parte della morsa è rappresentata dalle banche private. Non si parla più di riserve e asset congelati ma di rifiuto categorico di incassare cedole sui bond sottoscritti in rubli. Una scelta in parte collegata alla decisione americana e relativa al pagamento di 2 miliardi di interessi, lo scorso 4 aprile, come peraltro anticipato da Formiche.net. Alcune istituzioni finanziarie internazionali si sarebbero infatti rifiutate di gestire ed elaborare il pagamento da 649,2 milioni di dollari alla scadenza del 4 aprile, in rubli. In altre parole, Mosca avrebbe deciso di pagare una quota dei 2 miliardi con la propria valuta nazionale. Decisione però respinta prontamente.

D’altronde, il contratto originario alla base del bond prevede il pagamento in dollari e, quindi, effettuarlo in un’altra moneta potrebbe rappresentare una violazione e un mancato rispetto degli obblighi. E adesso? A questo punto Mosca ha 30 giorni di tempo, il cosiddetto periodo di grazia, prima che scatti il default. La Russia ha 15 obbligazioni internazionali sul mercato per un valore nominale di circa 40 miliardi di dollari. E non sarebbero al momento state pagate neppure cedole in scadenza ieri su un’obbligazione di durata fino al 2042.

Dunque la Russia fallirà? Non è detto. Non bisogna mai dimenticare che gas e petrolio garantiscono al Cremlino entrate per circa un miliardo al giorno e solo relativamente alla sola Europa. Se è vero, dunque, che onorare il debito può diventare più difficile, è altrettanto vero che ad oggi la vendita di energia tiene in piedi l’ex Urss. Senza dimenticare che l’impennata dei prezzi di grano e metalli, dovuta alla guerra, fa il gioco di Mosca, che esporta in tutto il mondo beni che non sono sotto embargo. Non ancora, almeno.

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