Massimo Franchi, consigliere strategico per organizzazioni multinazionali, ricercatore e docente, ha svolto una lezione su come creare una scuola di guerra economica in Italia al Master in Intelligence dell’Università della Calabria, diretto da Mario Caligiuri
“Creare una scuola di guerra economica in Italia”. È la sintesi principale dell’intervento di Massimo Franchi al Master in Intelligence dell’Università della Calabria. Consigliere strategico per organizzazioni multinazionali, ricercatore e docente, Franchi ha osservato come “analizzando i conflitti si osservano tre tipi di minacce: convenzionali, non convenzionali e ibride”, precisando che queste ultime vanno oltre ogni logica, compresa quella organizzativa e che la guerra economica rientra tra tali minacce.
Nel delineare lo scenario, Franchi ha notato che negli anni Sessanta nell’ambito dei commerci internazionali vi era un’economia ancora fortemente legata al Regno Unito che iniziava a lasciare spazio agli Stati Uniti, con una ancora forte predominanza francese. Nel corso di quegli anni, l’Italia è diventata una potenza manifatturiera trasformatrice sebbene non avesse materie prime.
“Negli anni Novanta – ha rilevato il relatore – il contesto cambia con l’ascesa della Cina, grazie all’apertura americana, divenuta, da Paese in Via di Sviluppo, un attore globale. In tale frangente, è ipotizzabile, in futuro molto vicino, un superamento in termini economici degli Stati Uniti da parte della Cina”. Il relatore ha anche evidenziato il ruolo assunto da alcune imprese multinazionali, spesso con un utile superiore al PIL di alcuni Paesi africani, ma senza una chiara attribuzione di appartenenza statale.
Franchi ha illustrato come in tale contesto economico vi siano imprese che producono beni pubblici ed ha evidenziato la differenza tra questo concetto e le “public company” nelle quali spesso si perde lo scopo di “bene comune” a favore del dividendo pagato, in qualsiasi condizione, agli azionisti. In particolare, si è soffermato sulle società quotate con azionariato diffuso ed ha indicato come, comunque, “In alcuni settori sia divenuta necessaria la vigilanza dello Stato sovrano”.
Il docente ha sottolineato che gli investimenti diretti esteri possono rappresentare uno strumento della strategia di conquista economica, menzionando a tal proposito la pubblicazione “La difesa della competitività: investimenti diretti esteri e intelligence economica” edita da SOCINT Press dove sono stati individuati gli investimenti diretti esteri in Italia. Questo fenomeno economico presenta alcuni elementi a favore, come la “reputation” di un sistema economico ed altri contro, come il depauperamento di un sistema produttivo, di una conoscenza o di un territorio. Il relatore ha anche osservato che attualmente, in Europa, la Francia attira più investimenti diretti esteri dell’Italia.
Vi sono poi, tra gli altri strumenti adottati nella guerra economica, gli scontri concorrenziali non solo tra Paesi occidentali e non, ma anche tra gli stessi Paesi occidentali, come è avvenuto all’interno dell’Unione europea sulla questione russa.
Franchi si è quindi soffermato sull’intelligence economica, spiegando che gli Stati che ricorrono maggiormente a tale strumento sono le grandi potenze economiche. Il docente ha così fornito alcuni esempi: quello anglosassone, quello giapponese e quello francese. Il primo è caratterizzato dal dominio delle informazioni, ricordando che l’Fbi finanziava le grandi industrie cinematografiche statunitensi, espressione del soft power americano, fin dagli anni ’50 del secolo scorso. “Gli Stati Uniti – ha ricordato Franchi – dopo il 1989 hanno orientato la propria intelligence verso la tecnologia, contribuendo a realizzare la Silicon Valley” e detenendo in tal modo la leadership del patrimonio tecnologico immateriale.
Il Giappone è ricorso al soft power esportando anche metodologie di management come nel caso del Total Quality Management applicato da Toyota. Il Giappone, divenuto nel frattempo attore di primo livello sulla scena mondiale, ha in tal modo utilizzato la dottrina della guerra economica che è stata studiata anche dalla Cia.
“La Francia invece – ha proseguito – consapevole della propria esperienza coloniale ha integrato i vari contesti storici e culturali”, specificando che l’intelligence economica non dovrebbe esaminare solamente i bilanci, ma dovrebbe tenere in considerazione l’analisi culturale, storica e le potenzialità dei territori.
Franchi si è quindi soffermato sull’ École de Guerre Economique, creata in Francia dopo il rapporto Martre del 1994 con il quale si cambiò la percezione dell’opinione pubblica francese sul ruolo dell’intelligence economica. “L’École de Guerre Economique – ha illustrato il docente – presenta il vantaggio di insegnare agli studenti a pensare in maniera differente all’interno di un mix culturale e di provenienza diversa”.
Secondo Franchi, una scuola di guerra economica dovrebbe dare vita un ambiente relazionale – nel quale convivono economia, finanza e istituzioni nazionali e territoriali – più simile ad un acceleratore di imprese che ad un’organizzazione di stampo militare. È fondamentale che tale contesto, nel quale le diversità sono un valore aggiunto, si rivolga alla società civile integrando le varie forme del sapere e coinvolgendo anche le industrie (non solo le grandi imprese, ma soprattutto le medie imprese), in quanto primi operatori economici ad operare nel mondo, gli enti territoriali e l’accademia.
Al fine di creare una scuola di guerra economica anche in Italia, che non deve essere intesa come una business school, il docente ha esortato ad avere maggiore consapevolezza della storia del Paese ed a riscoprire la prospettiva culturale in ambito economico. In particolare, è stato ricordato quanto sia stata significativa la creazione, a Napoli nel Settecento, della prima cattedra di economia civile grazie, tra le altre, alla figura di Antonio Genovesi e di come l’Arsenale Militare di Venezia abbia anticipato di secoli la moderna catena di montaggio, adottando concetti produttivi un uso ancora oggi.