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La sinistra francese ha perso e non ha capito perché. L’opinione di Malgieri

Come venti anni fa, la sinistra francese ha perso e non riesce a riconoscere le vere ragioni della sconfitta. Ieri come oggi, preferisce appoggiare chi sarebbe il suo nemico di classe, per timore della vittoria della destra

Me la ricordo bene quella sera del 21 aprile del 2002 a Strasburgo. E come potrei dimenticarla anche se sono passati vent’anni. Una serata avvolta nella tetraggine e brulicante di cortei silenziosissimi che s’incrociavano tra Place Klebér e il magico quartiere su un canale del Reno, suggestivo e dolce in primavera, la Petit France. Fu la serata più nera della sinistra francese. Uomini e donne di tutte le età, incappucciati come congiurati, neri nel mezzo volto che mostravano alla luce di una candela fioca come a un funerale, si sfioravano per le stradine intorno alla grande piazza e neppure davanti alla cattedrale di Notre Dame, si provavano ad alzare lo sguardo fisso sulla punta delle scarpe per testimoniare la loro disperazione alsaziana che non rientra nel carattere dei suoi cittadini. Strasburgo poteva esplodere quella sera o poteva intonare la Marsigliese. Non fece né l’una né l’altra cosa. Si piegò all’inimmaginabile. La sinistra credo fosse attraversata da una sottile tentazione al suicidio. Meglio se collettivo, una roba davvero autenticamente di sinistra.

Le notizie che giungevano dalle altre città si somigliavano tutte. La gauche in lutto, la République trema, il mondo di ieri sta per finire. E domani? Domani gli incappucciati di Strasburgo paventavano un’alba tragica. Seduto ad un tavolino davanti alla maestosa cattedrale di Nostra Signora, sorseggiando una birra, ammiravo, estasiato come sempre, il gotico fiorito della basilica illuminato appena dalle luci d’intorno. Ed ebbi la sensazione che anche quel palazzone brutto e scombinato, a pochi chilometri dal centro, scenario perfetto per un film alla Shining, forse non sarebbe più stato per gli strasburghesi di sinistra la pomposa “Casa della democrazia”. Era la sede del Consiglio d’Europa dal quale uscendo qualche ora prima avevo avuto il presentimento che la sinistra francese, dopo aver votato nell’emiciclo blu una delle tante bislacche mozioni terzomondiste, non sarebbe stata più la stessa.

Sotto le finestre del mio albergo, il Sofitel, udii delle grida che si placarono in pochi minuti. Poi, improvvisamente, calò il silenzio più stretto, neppure un rumore nelle strade, come se la gente fosse sparita. Le serrande dei negozi abbassate in anticipo, si parlava a bassa voce nella hall dell’hotel, le comitive dei politici dei vari gruppi s’interrogavano su cosa sarebbe accaduto, sorseggiando un bicchiere. Fu come se si fosse avviato un funerale.

Andai in  strada, mi accostai ai silenziosi manifestanti, provai a chiedere ad alcuni di loro che cosa stessero facendo, uno solo mi rispose: “C’est la fin du monde”.

Non mi ci volle molto a comprendere: lo spoglio elettorale del primo turno delle presidenziali aveva decretato la vittoria al secondo posto di Jean-Marie Le Pen, leader del Front National, sul socialista Lionel Jospin, dietro a Jacques Chirac che grazie a quel rocambolesco mutamento nell’orientamento elettorale sentiva la vittoria in tasca al secondo turno. E infatti distaccò Le Pen di circa cinquanta punti percentuali.

Ma fu comunque una vittoria per la destra francese aver surclassato i socialisti, uno dei pilastri della Quinta Repubblica.

La sinistra, con quella improvvisata manifestazione e con le prese di posizione che cominciarono immediatamente ad accavallarsi sui canali televisivi e l’indomani sui giornali, sosteneva, come suo solito, che la Francia era stata “imbrogliata”, che i francesi non capivano niente, che avevano scelto malissimo condannando un galantuomo, che al ballottaggio Le Pen avrebbe regalato la vittoria ai gollisti. Insomma, nessuno, come al solito, aveva compreso la “superiorità politica e morale” della sinistra, neppure quei comunisti sopravvissuti all’era Marchais, che non avevano ritenuto di appoggiare Jospin. Non un’autocritica, non un’ammissione di responsabilità nella disfatta.

Vent’anni dopo lo stesso scenario. Jean-Luc Mélenchon, leader di France Insoumise, non lancia anatemi contro una sinistra sbrindellata, per quanto lui abbia ottenuto un buon risultato personale, non si sofferma sull’implosione dei socialisti (proprio lui che socialista lo è stato) nessuno dei quali ha messo la faccia sulla sconfitta. Dove sono finiti François Hollande, Ségolène Royal, Martine Aubry, i capi di rue Solferino insomma, a parte Valls sparito nelle nebbie catalane? Nessuno ne sa niente. La loro inventata “superiorità” li esime dall’intervenire nel dare una qualche ragione del perché la sinistra si è dissolta.

Questa volta, rispetto a venti anni fa, con la prospettiva che Marine Le Pen possa diventare presidente della Repubblica, nessuno si è incappucciato. Mélenchon grida ai quattro venti che non un voto dal suo forziere elettorale uscirà a favore della leader del Rassemblement National, e come sempre, da uomo di sinistra, da irrealista, si illude. Gli istituti di sondaggio danno un terzo di quei voti a Le Pen, il resto non andrà a votare o voterà per Macron il quale è preoccupato del magro bottino.

Certo, non è un bello spettacolo vedere una parte dell’elettorato di sinistra votare per il “presidente dei ricchi”, ma tutto fa brodo a sinistra, purché da una corretta procedura democratica non risulti vittorioso il nemico di classe e Macron lo è di certo di quella sinistra che nelle aree depresse della Francia ha visto Le Pen intascare il 30, sfiorare il 40% dei consensi.

Ora Macron dice di voler rivedere il piano di innalzamento dell’età pensionistica, s’immerge dodici giorni prima del responso finale nella Francia profonda, si accorge della disoccupazione che avanza giorno dopo giorno, racconta di un Paese che in cinque anni non ha mai conosciuto e una buona parte della sinistra gli crede, quella che ogni sabato per due anni lo ha contestato tra Place de la République e la Bastiglia.

La sinistra è così, piagnona quando perde, aggressiva quando vince, sempre nel nome della sua inventata nobiltà stracciona che vanta oltre due secoli. Da ieri i telegiornali e i giornali di tutta l’Europa agitano il pericolo lepenista. L’Unione non sarà più la stessa, sostengono. Ma messa da parte la polemica sull’euro che cosa di così sovversivo potrebbe fare la bionda signora? Una rivoluzione? Che si batta per gli Stati Uniti d’Europa sembra che sia apprezzata anche da liberali, conservatori e perfino popolari. No, la sinistra ha capito che la storia le sta dando una lezione che non immaginava. E detesta Le Pen e fa di Macron il suo eroe. Incredibile. E se non si veste a lutto, non le resta altro che fare la faccia feroce, come i suoi pensosi opinionisti, che tuttavia non mette paura a nessuno.

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