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Perché l’innovazione tecnologica deve molto alla spesa militare

Perché buona parte delle tecnologie civili sono figlie della ricerca militare? Perché in Europa, e in particolare in Italia, solo i governi possono investire a lungo termine e su progetti visionari. E solo il comparto militare è rimasto competenza esclusiva dello Stato. Non avendo una Silicon Valley né un vero sistema di venture capital, teniamoci stretta la filiera della Difesa

Dopo l’articolo sul legame tra spesa militare e innovazione, provo a rispondere a una domanda che mi hanno fatto in questi giorni: perché la ricerca scientifica deve così tanto al settore della difesa? Anche in questo caso, tocca semplificare al massimo: perché in nessun altro settore (specialmente in Europa) c’è un tale flusso di investimenti sicuro, costante e (in alcuni casi) a fondo perduto.

Facciamo un passo indietro e concentriamoci sull’Italia. Nella seconda parte del Novecento buona parte delle industrie più innovative era in mano pubblica. Conosciamo gli esempi virtuosi e rivoluzionari dell’Eni nell’era Mattei così come i carrozzoni che hanno gravato sui bilanci pubblici e lasciato in eredità impianti fatiscenti e tecnologie mai decollate. In mezzo, lo Stato italiano ha fabbricato auto (Alfa Romeo), controllato catene di supermercati (GS), inscatolato pomodori (Cirio). Più o meno dai primi anni ’90, i governi hanno privatizzato o chiuso gran parte di queste aziende, lasciando all’iniziativa privata e a pochi soggetti ancora partecipati dal Tesoro il compito di portare avanti il settore industriale, con meno risorse e più attenzione alla tenuta dei conti.

Si è stabilito, insomma, che a fornire energia, garantire credito o gestire la rete autostradale, fossero soprattutto soggetti privati, regolamentati e sorvegliati dal governo o da autorità indipendenti. In alcuni casi – vedi il golden power sempre più ampio o la ri-statalizzazione di alcune società – questa scelta è stata messa in discussione, ma è un discorso troppo lungo per affrontarlo ora.

Qui vogliamo concentrarci sull’unico settore che non è mai stato – e non può essere – privatizzato: la Difesa. Mantenere la sicurezza e usare la forza sono competenze, per legge, riservate allo Stato. È un principio valido in gran parte delle democrazie occidentali, non a caso uno dei più potenti e sanguinari eserciti privati, il gruppo Wagner, nasce in Russia ed è protetto, ricambiato, dal regime di Putin.

Dunque in Europa, e in particolare in Italia, le industrie tecnologiche hanno potuto beneficiare di un investitore a lungo termine, che non ha come obiettivo un ritorno economico immediato ma quello di garantire un buon livello di sicurezza ai propri cittadini e avere forze armate equipaggiate con strumenti moderni ed efficaci.

Lo Stato arruola, forma e impiega decine di migliaia di donne e uomini in uniforme, molti dei quali si specializzano in materie Stem e lavorano per queste industrie. È protagonista in tutti gli anelli della catena: finanzia o possiede le aziende, forma il personale anche attraverso le proprie università, acquista i prodotti per sé e ne negozia la vendita ad altri Stati. Ed è uno dei pochi a investire nei moonshot, i progetti visionari che fanno fare salti di decenni all’umanità.

Lo stesso è successo negli Stati Uniti ma, a differenza dell’Europa, nella Silicon Valley si è sviluppato negli ultimi 40 anni un sistema parallelo di finanziamento e crescita del settore tecnologico. Capace di rivaleggiare con il settore pubblico come nei casi di SpaceX e Blue Origin, le società aerospaziali di Elon Musk e Jeff Bezos. Che, non a caso, puntano alla Luna e a Marte come faceva la Nasa negli anni ’60.

In Italia purtroppo manca il sistema del venture capital, che è alla base di questo ulteriore canale di crescita. Spesso lo confondiamo con private equity, hedge fund, fondi d’investimento e banche d’affari, ma il VC (venture capitalist) ha delle caratteristiche uniche che lo distinguono da altri tipi di investitori e consulenti. Di nuovo, semplificando molto, un VC investe in una start-up con prospettiva a lungo termine, sapendo che forse potrà vedere un ritorno sul suo investimento in 10-15 anni.

Il VC si ispira al modello di David Swensen (scomparso l’anno scorso), che per 40 anni ha gestito l’endowment di Yale. Le università americane hanno fondi miliardari che devono investire e gestire con uno sguardo decennale, o addirittura secolare. E hanno ambiziosi studenti che appena laureati fondano società innovative ai quali servono disperatamente investitori a lungo termine. L’unione di questi due fattori è alla base del successo finanziario dei venture capitalist e di quello industriale della Silicon Valley.

Per questo a chi dice “diamo i soldi della spesa militare alle università” con molto realismo bisogna rispondere che gran parte delle università italiane non è strutturata per ricevere o gestire grandi somme di denaro, né per essere l’ingranaggio di un sistema complesso in cui far convivere pubblica amministrazione, aziende, soggetti stranieri ed enti sovranazionali. In molti casi gli atenei non sono in grado di sfruttare neanche i fondi europei, perché studenti e ricercatori non sanno come partecipare ai bandi o, una volta ottenuti, come impiegarli.

Secondo il generale Luciano Portolano, segretario generale della Difesa e direttore nazionale armamenti, la filiera produttiva della Difesa italiana ha generato 15 miliardi di euro di valore aggiunto nell’economia nazionale, pari allo 0.9% del Pil “con un moltiplicatore pari a tre”. Vale a dire che per ogni euro investito in Difesa se ne sono “guadagnati” tre.

Grazie alla spinta europea, l’Italia dovrebbe partecipare a grandi progetti industriali per creare una catena di approvvigionamento più solida nelle tecnologie strategiche. Parliamo di microchip, apparati per telecomunicazioni, robot, batterie, veicoli elettrici, pannelli solari e pale eoliche. Aspettando di capire come funzionerà questa politica industriale a 27, tra accese rivalità e concorrenza tra Paesi a suon di sussidi (è un ossimoro, ma è così), teniamoci stretta la filiera della Difesa e garantiamole almeno il 2% del Pil. Sia perché è in grado di metterlo a frutto, sia perché i vigliacchi bombardamenti sui civili ucraini ci fanno capire che un’Europa incapace di difendersi non possiamo più permettercela.


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