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Orbàn redivivo. La guerra in Ucraina dà la volata al governo Fidesz

Quarta vittoria elettorale (la quinta in termini assoluti), con le congratulazioni del presidente russo Vladimir Putin. L’Ungheria di Orbán è ancora, una volta di più, un Paese e una nazione che pone delle esigenze e a cui i partner euro-atlantici dovranno in qualche modo rispondere. L’analisi di Andrea Carteny, storico delle relazioni internazionali, studioso dei nazionalismi in Europa orientale e direttore del Cemas

“Abbiamo vinto contro il globalismo. Contro Soros. Contro i media mainstream europei. E anche contro il presidente ucraino”, ha dichiarato a caldo Viktor Orbán commentando la vittoria elettorale. In realtà la guerra in Ucraina ha ridato al leader dei “giovani liberali”, poi “conservatori, cristiani, patriottici”, un maggiore spazio politico fino a poco fa logorato dalla permanenza al potere, dalla crisi e dalla pandemia: e l’opposizione ha bisogno di un progetto non soltanto anti-Orbán.

La quarta vittoria consecutiva dell’Orbán “illiberale”

Dodici anni di governo, nella seconda fase della sua attività politica, quando trasforma il Fidesz da partito liberale di governo (dal 1998 al 2002) in partito conservatore e sovranista (dal 2010 ad oggi) e ora una quarta vittoria elettorale (la quinta in termini assoluti), con le congratulazioni del presidente russo Vladimir Putin! L’Ungheria guidata da Orbán è additata come quinta colonna di Mosca in Europa (soprattutto da Kyiv), contraria all’invio di armi – negando il loro passaggio attraverso il confine ungaro-ucraino – ma straordinariamente impegnata nell’accoglienza dei profughi che senza soluzione di continuità stanno attraversando il confine proprio da quella provincia di frontiera popolata da magiarofoni e causa di tante tensioni tra Budapest e Kyiv.

Ma come è riuscito il 58enne Viktor Orbán a confermarsi al potere? Eppure con l’economia magiara attanagliata da mancanze strutturali, l’inflazione in rialzo che corrode il potere di acquisto dei cittadini, e il confronto con Bruxelles oltre l’ambito ormai tradizionale di scontro – quello sui migranti e sulla libertà dei media, che sconfina nella questione del gender, oggetto del referendum sull’LGBTQ+ tenutosi con le elezioni politiche – l’invasione russa dell’Ucraina ha ridato al vecchio leader dei giovani liberali l’opportunità per sei settimane di campagna elettorale di grande efficacia.

La guerra e il cambio di passo

L’Orbán padre padrone dell’Ungheria populista, leader con i polacchi del gruppo dei Paesi sovranisti di Visegrad, riferimento europeo dei leader antieuropeisti, amico personale di Vladimir Putin (in visita a Mosca poco prima dell’invasione russa in Ucraina) e sponsor degli investimenti della Cina popolare, avrebbe potuto esser considerato ormai “bruciato” dalla svolta bellicista di Mosca e dal rilancio del ruolo della Nato. E invece durante l’ultimo mese di campagna elettorale, quando le opposizioni riunite per la prima volta in un unico blocco anti-Fidesz sembravano vedere possibile il cambio al regime orbaniano, Viktor Orbán da navigato politico e soprattutto da profondo conoscitore delle speranze e delle paure della “piccola” Ungheria novecentesca, torna alla ribalta. Di fronte ai profughi e agli sfollati in marcia, che arrivano verso il confine ungherese fin dai primi giorni del conflitto, si affretta nell’allestimento delle strutture di accoglienza, va di persona ad accogliere le famiglie in arrivo (alcune parlanti ungherese in quanto provenienti dalla regione ucraina in passato magiara della “Kárpátalja”). Condanna la guerra e si associa alle sanzioni contro la Russia, ma senza estenderle al settore energetico: Budapest, grazie all’asse Orbán-Putin, gode dei prezzi più economici in Europa per l’approvvigionamento di gas e petrolio russi, e questo, più che di debolezza, diventa un fattore di forza, un “plus” per il suo messaggio elettorale. Con i sussidi a giovani e famiglie numerose, con i prezzi calmierati, il voto al Fidesz diventa così la migliore garanzia contro il caro-bollette che rischia di far rimanere al freddo le famiglie europee e senza energia le industrie e i servizi nazionali.

“Pace e Sicurezza”

Come membro della Nato l’Ungheria può sfruttare l’ombrello di sicurezza di difesa collettiva dell’art. 5, ma con Orbán può fare di più: non aderendo all’impegno di riarmo ucraino, tiene Budapest al di fuori degli strali di Mosca, che minaccia ritorsioni anche contro i Paesi Nato ingaggiati nella fornitura di armamenti a Kyiv. Dopo il gelo con Bruxelles, il freddo con Washington è ampiamente giustificato dall’interesse nazionale, “patriottico” delle posizioni di Budapest: Béke és Biztonság è la formula elettorale, “per la pace e la sicurezza dell’Ungheria”, non solo assicurata dalla Nato ma anche da Mosca. E gli elettori lo hanno premiato: i sondaggi avevano rivelato una certa stanchezza nell’elettorato tradizionale del Fidesz, sia per la gestione “nepotistica” del potere sia per l’allarmante tasso di corruzione denunciato da Bruxelles, alibi e causa del mancato versamento dei fondi europei del Pnrr spettanti a Budapest. Però alla fine, il contadino, il piccolo proprietario, il commerciante, il professionista, l’impiegato padre di famiglia si sono convinti che in un contesto tanto rischioso e liquido (memori, forse, anche della pericolosa vicinanza di Mosca e della drammatica esperienza del 1956), meglio tenersi una leadership in qualche modo logorata ma anche esperta, piuttosto che mettersi in mano di un giovane inesperto, appoggiato da una coalizione unita sostanzialmente solo dall’opposizione a Viktor, il più giovane Péter Márki-Zay, leader dell’opposizione unita e sindaco della città di Hódmezővásárhely.

Alta partecipazione, la maggioranza silenziosa del Fidesz

Con il 70% dei votanti, gli ungheresi hanno stavolta partecipato con un’alta affluenza al voto, esprimendo un massiccio favore per il Fidesz tra gli ungheresi oltre frontiera (intorno ad un milione è il numero di passaporti ungheresi tra le comunità di minoranza in Romania, Serbia e Ucraina, pochissimi in Slovacchia), ma anche in patria. Al Fidesz e agli alleati di sempre, il Partito popolare cristiano democratico (Fidesz-KDNP, già conosciuti come l’”Alleanza della solidarietà ungherese”), sarebbero andati circa il 53% dei consensi, con 135 seggi, al blocco di opposizione circa 35% di voti e 56 seggi, quindi superando la soglia del 5% anche 7 seggi alla nuova formazione radicale Mi Hazánk. Sebbene conservatore e padre di 7 figli, il leader dell’opposizione Márki-Zay non ha convinto l’elettorato magiaro, in quanto percepito come troppo “occidentale” e poco difensore della specificità ungherese, la nazione più orientale del cristianesimo occidentale, e dei valori della tradizione europea. Lo stesso referendum, consistente di 4 quesiti contro la diffusione della cultura LGBTQ+, sebbene non superando il 50% dei votanti non sia valido, ha però in assoluto raccolto un larghissimo consenso di voti.

L’Ungheria di Orbán è ancora, una volta di più, un Paese e una nazione che pone delle esigenze e a cui i partner euro-atlantici dovranno in qualche modo rispondere.

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