Putin non può perdere la guerra, ma non riesce a vincerla. Nel suo discorso in occasione dell’annuale parata per la vittoria nella Grande guerra patriottica, il presidente russo non ha pronunciato nulla di nuovo, ma… L’analisi di Luciano Bozzo, professore di Relazioni internazionali e studi strategici dell’università di Firenze
Il discorso pronunciato sulla Piazza Rossa dal presidente Vladimir Putin in occasione del 77esimo anniversario della vittoria dell’Unione Sovietica nella Grande guerra patriottica è stato sorprendente. Una sorpresa paradossalmente dovuta al fatto che nel testo non vi è nulla di nuovo, particolarmente negativo o più minaccioso rispetto a quanto già è stato dichiarato da Putin, dal ministro degli Esteri Lavrov e da altri esponenti della leadership politica e militare russa nelle settimane passate.
Anzi, semmai è vero il contrario. Da un lato, le grandi aspettative alimentate da tanti analisti, commentatori e fonti di Intelligence sulla data del 9 maggio, e a quanto sarebbe dovuto accadere in occasione della parata militare, si sono rivelate più che eccessive. Così come è parso indicativo il mancato sorvolo della piazza, nonostante le buone condizioni meteorologiche, della componente aerea, che, vale la pena ricordarlo, avrebbe compreso una formazione di aerei a forma di zeta e almeno un bombardiere strategico Tupolev. D’altro canto, il discorso del leader russo è però più interessante di quanto potrebbe apparire a un’analisi affrettata.
In sintesi, tutti coloro che si attendevano novità significative ritenevano che Putin avrebbe pronunciato la parola “guerra”, se non una vera e propria dichiarazione formale di guerra all’Ucraina, che avrebbe fatto balenare l’ipotesi di un’ulteriore escalation del conflitto in atto, nel caso con un rinnovato riferimento alla minaccia nucleare, o proclamato in qualche forma la mobilitazione generale, per il passaggio dalla cosiddetta operazione militare speciale a una guerra “totale” all’Ucraina, o almeno così più o meno propriamente definita da tanti commentatori.
In realtà, nel discorso pronunciato dal leader russo non vi è cenno ad alcuna di queste che sarebbero state novità radicali e preoccupanti. Ciò evidentemente non significa che il discorso, con i suoi toni moderati, rispecchi la realtà delle cose e i progetti sulla prosecuzione della guerra della leadership del Cremlino. Il peso dell’eredità sovietica in materia di “disinformazia” non dovrebbe mai essere trascurato nelle analisi sulla comunicazione politica russa. Ciò premesso resta però il fatto che nel testo, fatta salva la solita retorica sulle vittorie russe (a partire da Borodino), la lotta per i valori della tradizione contro la decadenza dell’Occidente, la denazificazione e altro, non mancano elementi di interesse. Non solo, come già è stato scritto e ripetuto, per ciò che non è stato detto, ma anche per quanto invece è stato detto.
A ben vedere Putin era costretto a muoversi su un sentiero stretto. Allo stato attuale le condizioni del campo di battaglia continuano a prefigurare la situazione paradossale in cui egli si è venuto a trovare a conclusione della fase uno dell’attacco, alla fine di marzo. Da allora, esauritasi la spinta dell’offensiva iniziale russa senza che evidentemente fossero stati conseguiti gli obiettivi della medesima, Putin non può perdere la guerra, per tutto quanto ne seguirebbe sul piano nazionale russo e personale, e al contempo non riesce a vincerla, chiudendo la partita con un risultato significativo che giustifichi perdite e costi economici sin qui patiti. Attorno a Kiev e Kharkiv gli Ucraini hanno riconquistato terreno. I Russi hanno invece concentrato lo sforzo nel Donbass e mutato tattica: facendo affidamento sull’impiego massiccio della potenza di fuoco avanzano assai lentamente, in modalità “rullo compressore”. Se ne potrebbe concludere “pari e patta”.
Proprio questo impedisce tuttavia l’avvio di un negoziato: gli ucraini confidano di riguadagnare altro terreno perduto e i russi di incrementare quanto già controllano. Nel discorso Putin ha ricostruito per così dire la genesi del conflitto odierno. L’Unione Sovietica non voleva la guerra, e proprio per questo di fronte ai segnali dell’aggressione nazista non adottò le misure necessarie, la subì e si trovò così costretta a combattere una guerra dolorosissima, costata ventisette milioni di morti. La Federazione russa non ha inteso ripetere lo stesso errore di fronte ai segnali che testimoniavano come imminente un attacco sostenuto dalla Nato contro la Crimea e nel Donbass. La classica giustificazione, dunque, di una guerra preventiva, di nome e di fatto.
L’elemento più interessante del discorso è però costituito proprio dai riferimenti geografici, che sono tre. Putin ha parlato di intervento in difesa del Donbass e della Crimea ed ha poi fatto un cenno ai martiri filorussi morti nel maggio 2014 nell’incendio della casa dei sindacati di Odessa. Nel discorso manca invece un riferimento specifico agli altri obiettivi politici e militari della guerra, più volte sottolineati nelle settimane passate. Se ne potrebbe dedurre che il leader russo abbia voluto evidenziare il risultato che gli consentirebbe di presentarsi al Paese giustificando le perdite umane – riconosciute e onorate nel discorso – e materiali subite: Donbass e Crimea, oltre evidentemente alla fascia costiera sul mar d’Azov già conquistata. Si tratta di vedere se, quando e per quanto tempo riuscirà a ottenere ed eventualmente mantenere un simile risultato. La risposta, ancora una volta, dipende solo da quanto accadrà sul campo di battaglia.