Skip to main content

No, Draghi non è l’americano (per fortuna?). Scrive Castiglioni (Iai)

Di Federico Castiglioni

L’incontro di Washington non deve essere letto come un segno di allontanamento tra Roma e Washington ma piuttosto come una nuova fase di maturità dei rapporti internazionali a cui si spera che l’Italia possa essere sempre più pronta. L’analisi di Federico Castiglioni, ricercatore all’Istituto affari internazionali nel programma “Ue, politica e istituzioni”

Molti anni fa, quando Europa e Stati Uniti stavano prendendo strade diverse sulla seconda guerra in Iraq e molti si stupivano dell’atteggiamento filo-atlantico del governo Berlusconi, un insigne studioso come Leopoldo Nuti provò a sintetizzare quanto stava accadendo citando un diplomatico della Guerra fredda secondo cui “per gli italiani il padrone ricco e lontano è sempre meglio di quello povero e vicino”. Al tempo, gli Stati Uniti erano certamente il padrone ricco e lontano mentre Francia e Germania erano quel padrone relativamente povero e sicuramente vicino.

L’Italia, com’è noto, seppur tra molti equivoci e tentennamenti, alla fine supportò diplomaticamente la guerra contro Saddam Hussein, scegliendo quindi il suo spirito atlantico rispetto alla sensibilità “europea” franco-tedesca. In questi venti anni, tuttavia, molto è cambiato nella politica internazionale e anche nella percezione della stessa in Italia, tanto che forse oggi si può dubitare che la scelta del “padrone” ricco e lontano sia considerata necessariamente la migliore. Il fatto che Roma e Washington non siano stati sempre sulla stessa lunghezza d’onda sui grandi dossier internazionali degli ultimi tempi del resto è cosa nota. Per esempio, come sottolineato anche sulle pagine di Formiche.net, alcune scelte americane come quella di assecondare la destabilizzazione della Libia o di lasciare precipitosamente l’Afghanistan senza consultare gli alleati, non sono state viste di buon occhio da Roma.

Lungi dall’essere casi isolati, questi episodi si sono aggiunti a crisi diplomatiche più o meno notate dall’opinione pubblica, come l’intercettazione di diversi capi di Stato europei da parte della CIA o espliciti tentativi di usare l’Europa come pedina di una più vasta campagna di contenimento nei confronti di Russia e Cina, che hanno avuto i loro riverberi anche a Roma. In questo quadro l’Italia, da alleato sempre affidabile per Washington, sta diventando sempre più un interlocutore del gruppo “europeo” della Nato, andandosi ad inserire nella narrativa franco-tedesca sulla guerra ucraina.

Non parliamo in questo caso di un giro di valzer di rotture e ricomposizione con Washington, in cui si è specializzato Emmanuel Macron negli ultimi anni facendo leva sulla storia del rapporto Stati Uniti-Francia, né del “doppio forno” tedesco con Mosca, fondamentalmente impossibile all’Italia in questo momento anche per una congiuntura interna che vede il declino delle fazioni che avevano stretto i migliori legami con Vladimir Putin. Si tratta invece di un atteggiamento di convinto e sofferto sostegno del governo Draghi a Kiev, nel quadro di un rapporto transatlantico che l’Italia supporta ma che non considera più scontato.

In questo il governo italiano coglie certamente anche il segno dei tempi. Il fatto che ci sia una tendenza di progressivo raffreddamento atlantico in atto era già registrato dalle cancellerie mondiali da anni ed è riscontrabile oggi nelle stesse parole dei leader occidentali, i quali rimarcano costantemente il “fallimento della Russia nel dividere Europa e Stati Uniti”. La stessa possibilità che il Cremlino avesse paventato tale divisione e che essa fosse plausibile dopo l’annessione della Crimea è un tacito riconoscimento della diversa sensibilità mostrata dalle due sponde dell’Atlantico anche riguardo alla stessa questione ucraina. 

Questa premessa aiuta certamente nella comprensione delle dinamiche a cui si è assistito con la recente visita di Mario Draghi negli Stati Uniti. Il presidente del Consiglio, recatosi a Washington in un delicato momento per il governo in cui la sua maggioranza sembra divisa sull’invio di armi ma unita nel voler promuovere un accordo internazionale sull’Ucraina il più presto possibile, non ha tenuto una conferenza stampa con il presidente statunitense Joe Biden, né sembra aver tenuto colazioni di lavoro con funzionari di Stato come fatto per esempio da Enrico Letta del 2013 (lo stesso che è prodigo di critiche oggi nei confronti del democratico Biden che pure lo accolse allora alla Casa Bianca).

La differenza dell’accoglienza di Draghi è diversa anche rispetto a quella di Giuseppe Conte nel 2018, in cui Donald Trump e l’allora novello presidente del Consiglio italiano si trovarono d’accordo nel dirsi fieramente populisti e anche – oggi diremmo paradossalmente – soprattutto sulla stessa lunghezza d’onda nella sospensione delle sanzioni nei confronti della Russia. Al contrario, Draghi è apparso un leader più autonomo che non è stato “accolto” ma che si è costruito da solo l’agenda con due appuntamenti di grande valore politico al Congresso e all’Atlantic Council, importante centro di rapporti tra finanza e giornalismo.

In entrambi i contesti, Draghi si è espresso per un accordo e dei colloqui di pace. Del resto, i titoli dei giornali americani e britannici su questa visita non sono di certo quelli di un Presidente del Consiglio che va Washington a “ricevere istruzioni”, come commentato da editorialisti nostrani la cui penna superficiale e faziosa è ben nota, ma quello di un dibattito franco tra alleati in cui l’Italia pone sul tavolo di Biden alcune questioni, in primis la crisi energetica e i futuri rapporti con la Federazione Russa. I termini “colloqui” e “negoziati” sono quindi stati i protagonisti di questo viaggio. L’idea di pace italiana non è da intendersi come generico auspicio, ma passa attraverso, nelle parole dello stesso Draghi un confronto tra Washington, Bruxelles e Mosca su un nuovo assetto di sicurezza regionale.

In termini pratici, questo vuol dire non opporsi a soluzioni che potrebbero essere congeniali all’Ucraina per un cessate il fuoco, come quella di far tornare la Russia sulle posizioni di prima dell’invasione, magari ponendo lo stop all’invio di armi e un passo indietro su alcune sanzioni come incentivo occidentale a Putin per seguire la strada politicamente dolorosa del ritiro. Dal punto di vista politico, questo invece vuol dire sedersi al tavolo delle trattative con il presidente russo, definito dall’amministrazione americana (ma non dagli europei) un criminale di guerra. L’alternativa a questa prospettiva, ha fatto capire chiaramente Draghi a Washington, è quella di un conflitto perenne in attesa di un segnale da Mosca o di un cambio di regime che non è detto che avvenga nel medio periodo (a meno che al Pentagono sappiano di più sul tema senza condividerlo, una cosa che non sarebbe del tutto inaspettata al Quai d’Orsay o alla Farnesina).

Il posizionamento di Draghi è parso quindi perfettamente allineato a quello di Olaf Scholz e Macron, dando adito al sospetto americano che gli europei siano disposti a sacrificare parti di Ucraina pur di riprendere a fare affari con la Russia, e complementare ai sospetti europei nei confronti degli atteggiamenti intransigenti degli Stati Uniti. Questo clima diffidente di fondo è ovviamente bilanciato dal dato più importante ed evidente al momento, ossia il fatto che fino ad oggi Stati Uniti, Unione europea e Nato abbiano lavorato congiuntamente sull’invio di armi ma soprattutto sulla simultaneità delle sanzioni.

Lo stesso Draghi in questa partita ha giocato un ruolo chiave, motivo per cui può liberamente, a differenza di altri leader dell’Unione europea, recarsi alla Casa Bianca e affermare al contempo che il conflitto ha rafforzato il rapporto con gli Stati Uniti ma che l’opinione pubblica italiana (ed europea) sta aspettando con più ansia i colloqui di pace del prossimo embargo petrolifero. Ovviamente, il presidente del Consiglio ha questa libertà d’azione anche perché è l’unico capo di governo dell’Unione a potersi presentare come rappresentante del suo Paese ma anche in qualche modo delle istituzioni comunitarie, rafforzando quindi la sua autorevolezza.

Non si può dire che Biden non abbia colto questo duplice ruolo dell’inquilino di Palazzo Chigi quando ha affermato che “un’Unione Europea forte è nell’interesse degli Stati Uniti” e che, nel ricordare le convulse giornate dell’invasione, ha sottolineato come “Draghi abbia avuto il merito di aver tenuto Washington e Bruxelles allineate durante la crisi”. La formula euroatlantica Draghi, profondamente italiana ma al contempo originale per un Paese non abituato ad esprimere una posizione dissonante, sembra del resto l’unica possibile nel contesto attuale.

Ogni alternativa al momento infatti non è possibile perché da una parte l’idea francese di un’Unione europea totalmente “autonoma” dagli Stati Uniti nei suoi rapporti con la Russia si scontra con l’inconsistenza dell’Unione come attore di sicurezza internazionale, e dall’ altra perché la reputazione degli Stati Uniti è troppo compromessa per imporre un aut-aut su Putin come avvenne ai tempi di Saddam Hussein. L’incontro di Washington, nella sua poco calorosa cornice istituzionale, non deve quindi essere letto come un segno di allontanamento tra Roma e Washington, ma piuttosto come una nuova fase di maturità dei rapporti internazionali a cui si spera che l’Italia possa essere sempre più pronta. 

×

Iscriviti alla newsletter