Skip to main content

A Draghi serve un megafono contro la grancassa russa

Al ritorno da un viaggio di successo negli Stati Uniti il premier Mario Draghi fa i conti con una resistenza interna sulla guerra ancora più forte, facilitata dalla grancassa filorussa tra media e Parlamento. Per rispondere deve alzare la voce, prima che sia tardi. Il commento di Francesco Sisci

Il viaggio in Usa del premier Mario Draghi è andato molto bene. Ha portato a casa un sostegno americano, necessario a tenere sotto controllo tassi di interesse altrimenti in fuga verticale, e in cambio Roma ha dato un suo impegno alla causa ucraina. Ciò serve alla sopravvivenza stessa del Paese in un momento estremamente difficile all’interno e all’estero.

Eppure al suo ritorno in Italia le critiche contro Draghi si sono moltiplicate. Ciò è una questione che ha molte facce, e forse non riguarda solo il trasversale partito putiniano. Draghi ha un problema con l’informazione. Bravissimo nelle conferenze stampa, questo però non esaurisce la comunicazione, anzi.

Una questione più tecnica è la gestione dei rapporti con la stampa. Si è passati da una macchina da guerra di pubblicitari dell’era Conte, a comunicazioni stentate e carbonare come se le azioni di governo fossero quelle della Banca Centrale che influenzano i tassi di interesse.

In realtà qui c’è un punto vero. L’azione di governo è composta da fatti e sue comunicazioni. L’equilibrio tra i due momenti è delicato. In Italia per anni si è fatta tanta schiuma e poca o pochissima sostanza.
Oggi viceversa si sa forse troppo poco su cose più di sostanza. La comunicazione è questione politica, serve a creare consenso, non solo tra la gente ma anche in parlamento, nell’opinione pubblica. E serve anche a stabilire un confronto: cosa è opportuno o meno fare su questo o quell’altro tema? È questione di dibattito pubblico democratico.

Certo, non tutto può essere mercato delle vacche, ma neanche tutto può essere segretato. Di certo il Parlamento è debolissimo, i partiti sono allo sbando, molti parlamentari hanno idee bislacche se non da traditori, da mettere al muro in tempo di guerra. Ma questo è, e forse il governo deve anche creare un nuovo consenso davanti alla guerra in corso e non semplicemente limitarsi a ignorare i mugugni e le proteste.

Molto superficialmente, le televisioni appaiono sconcertanti, a cominciare dal servizio pubblico. Il ritornello ovunque pare essere “quanto ci costa ‘sta guerra?” C’è poco sulla sorte degli ucraini, nulla sulle preoccupazioni, giuste o sbagliate, di polacchi, rumeni, moldavi, baltici, slovacchi. Quando si parla di Europa, ci si riferisce alle posizioni di Macron, il quale con tutto il rispetto dovuto, rappresenta, molto bene, il suo Paese, non tanto di più.

Naturalmente, forse per fortuna, tutta questa informazione non ha riscontro sulle azioni di governo, che invece seguono un percorso atlantico diverso. Ma la schizofrenia tra quello che fa il governo e quello che si dice in Italia quantomeno spacca il Paese, e non aiuta il processo democratico.

Il Parlamento è commissariato, perché inaffidabile. Ciò perché ci sono troppi filo moscoviti, a cominciare da Silvio Berlusconi, definito dal New York Times “il più stretto alleato di Putin in Europa”, per continuare con i leader della lega Matteo Salvini e quello del M5s Giuseppe Conte.

Essi non faranno cadere il governo perché si tratta “corrotti nell’anima”, che vendono la propria fede politica per un mese di stipendio in più, e quindi urleranno ma staranno attenti a non scivolare nelle elezioni anticipate. Ma il problema di comunicazione e consenso rimane.

Anche perché, inutile e sciocco farsi illusioni, la guerra in Ucraina probabilmente è solo un pezzo di una lunga catena che tormenterà la politica internazionale per anni se non decenni.
La Russia sconfitta già oggi politicamente sopravviverà fra un anno? E se si come?

La Cina è chiusa da oltre un mese per drastiche misure anti Covid. Essa rappresenta circa ¼ del commercio mondiale, ha annunciato la settimana scorsa che non ospiterà il campionato asiatico di calcio dell’anno prossimo, quindi anche nel 2023 si prevede chiusura. Non è solo il prezzo del petrolio o il gas, ma i semilavorati, le migliaia di produzioni globali che sono spostate in Cina.

Intorno a Pechino poi ci sono tensioni enormi di Paesi vicini e lontani di cui non siamo informati ma che sono ben presenti al di là del conflitto ucraino.  In tutto questo l’Italia è già coinvolta, piaccia o meno, e la pace in Ucraina, domani o fra due mesi, non cambia il resto del panorama.

Su questo forse il governo dovrebbe essere più convincente, e coinvolgere di più il Paese. Forse questo avrebbe come ricaduta anche di smorzare le polemiche sulla sua attività generale, e quindi facilitare anche sue prese di posizioni internazionali. Altrimenti tutto può apparire molto fragile e inquietante dall’estero.


×

Iscriviti alla newsletter