Da premier di un Paese amico a uomo della provvidenza. Il partito filorusso italiano (dentro la maggioranza) trasforma la missione di Mario Draghi a Washington in una svolta cruciale per le sorti della guerra in Ucraina. Ecco qual è la posta in gioco
In tempi normali, il viaggio di Mario Draghi a Washington DC in programma martedì sarebbe da leggere per quello che è: la visita di un competente presidente del Consiglio di un Paese amico e alleato degli Stati Uniti. Ma non viviamo in tempi normali.
Se le aspettative per il suo arrivo in America sono così alte il capo del governo italiano deve ringraziare due leader di partito e colonne della maggioranza che lo sostiene: Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Le sbandate filorusse dell’asse gialloverde, tra inviti ad abbandonare al suo destino la resistenza militare ucraina e aperture improbabili alla Russia belligerante, fanno sì che martedì alla Casa Bianca non sia atteso un qualsiasi leader di un Paese alleato, ma un vero e proprio “uomo della provvidenza” della causa occidentale contro la minaccia russa.
È l’esito paradossale e in parte imprevedibile della grancassa filorussa che in Italia, nelle scorse settimane, ha scalato vette inesplorate. C’è il circo mediatico e televisivo, con la premura tutta italiana di un dibattito fifty-fifty, ad armi pari, tra analisi e propaganda russa, con ospiti negazionisti che ripetono a memoria i dettati del Cremlino sull’“operazione speciale” contro i “nazisti ucraini”, comodamente seduti.
C’è la piazza social, che in Italia offre ancora una volta il campo di battaglia perfetto per le fake news made in Moscow, talvolta sbattute sulle prime pagine dei quotidiani. C’è la politica, con il resistibile ritorno dell’intesa fra Lega e Cinque Stelle rinsaldata dalla battaglia contro gli aiuti militari a Volodymyr Zelensky, puntualmente mascherata dal richiamo strumentale al pacifismo di papa Francesco (che è un papa, e per la pace non può che pregare).
Da Joe Biden Draghi si presenta ciononostante portando in dote una postura coerente e finora immutata del governo italiano davanti all’aggressione russa in Ucraina. Che si traduce nella condanna incondizionata della violenza scatenata da Vladimir Putin e nella piena adesione alle sanzioni occidentali contro Mosca.
A Washington arriva Draghi il premier, ma anche Draghi il banchiere e l’economista, cui il fronte anti-Putin guarda con deferenza per avere consigli sulla guerra economica che Europa e Stati Uniti hanno dichiarato a Mosca (non a caso, svelava un mese fa il Financial Times, il premier ha avuto un ruolo di primo piano nella definizione delle sanzioni più dolorose per il Cremlino, contro la Banca centrale russa). Con la concretezza e il pragmatismo che si addicono all’economista, allora, a dispetto di tante affermazioni di principio (sono bravi tutti), Draghi difenderà il lavoro fatto e quel che è ancora da fare.
A partire dal fronte energetico, dove l’Italia può rivendicare un lavoro costante nella ricerca di fonti alternative al gas russo, in Africa, Asia ed Europa, finora più concreto ed efficace di quello messo in campo dalla Germania di Olaf Scholz. Non a caso a fianco del premier ci sarà l’Ad di Eni Claudio Descalzi, con la possibilità molto concreta di un annuncio significativo da Washington DC.
Dunque il fronte delle forniture militari all’Ucraina. A Draghi il compito di spiegare all’alleato americano, al corrente del valzer in Parlamento sull’invio di armi a Kiev, i limiti e le virtù della democrazia parlamentare. Consapevole che l’Italia sta facendo la sua parte come e più di tanti alleati chiave in Europa. Il velo di segretezza sulla lista di armi spedite alla resistenza ucraina, motivato dall’intelligence per ragioni di sicurezza, nulla toglie infatti all’efficienza e all’efficacia del sostegno italiano, peraltro riconosciute dallo stesso Zelensky.
Assieme allo sforzo economico, tra le carte a disposizione del premier c’è il protagonismo dell’Italia per la sicurezza dell’Europa e del Mediterraneo, dalle missioni Nato nei Baltici e in Est-Europa alla proiezione di intelligence e militare nell’East-Med, in Africa del Nord e nel Sahel.
La Casa Bianca conosce e apprezza l’impegno italiano in Libia e in tutto il fianco Sud della Nato, dove la sfida russa non è meno impellente che ad Est. Così come i rapporti che Roma vanta con il mondo arabo e fra gli altri con la Turchia, il Paese (nella Nato) che più di tutti avrà voce in capitolo sugli assetti securitari nel Mediterraneo Orientale e nel Mar Nero dove oggi si combatte. Un canale reso ancora più forte dalla presenza del consigliere diplomatico di Draghi Luigi Mattiolo, anche lui nella delegazione a Washington e già ambasciatore ad Ankara.
Resta il piano politico, che vede un’Italia posizionata senza ambiguità. Forte di un lavoro parlamentare che lo dimostra e di una regia atlantista nel governo che ha il suo perno in alcuni ministri politici (su tutti Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini) e assai meno nei ministri tecnici. Nonché di una macchina diplomatica imponente e riconosciuta a Washington DC in un momento di ottimi rapporti fra la Casa Bianca, Villa Firenze e l’ambasciatrice Mariangela Zappia.
Intendiamoci: il viaggio di Draghi è ben lontano da una passeggiata di salute. Ma a dispetto delle apparenze il bagaglio del premier a Washington non è appesantito dal partito filorusso che a Roma inizia a mostrare i muscoli. Complice di un involontario assist al capo del governo, che in America si farà portavoce di una missione che può cambiare le sorti della crisi e proprio per questo avrà puntati addosso gli occhi del Cremlino.