Il crollo di Tesla (-28%), la continua ricerca di nuovi investimenti per ridurre la liquidità da pagare e la penale da “solo” un miliardo: ecco i motivi che potrebbero far saltare l’accordo
Del fatto che Elon Musk voglia Twitter, non c’è discussione. Che alla fine ci riesca, invece, è tutto da vedere. Mentre l’imprenditore continua a spiegare in che modo voglia trasformare la piattaforma a suon di tweet – alcuni espliciti, altri più enigmatici – la trattativa reale va avanti e non tutto sembra portare al dolce epilogo. Nello specifico, sarebbero tre le questioni che fanno pensare come la storia sia ancora lontana dall’essere chiusa. E tutti sarebbero collegati tra di loro.
Con ordine. A fine aprile, proprio nel momento in cui il Board di Twitter accettava l’offerta da 44 miliardi presentata da Musk per rilevare il 100% delle quote, il titolo di Tesla è crollato del 12% facendo così registrare un ribasso di oltre il 28% dal suo apice registrato sei mesi prima. Uno scherzo costato all’azienda ben 130 miliardi di dollari di capitalizzazione e 29 miliardi di dollari al patrimonio del suo proprietario, che viene visto come l’artefice di questo tonfo. Secondo alcuni sarebbe troppo distratto da quello che potrebbe diventare entro la fine dell’anno il suo nuovo giocattolo (Twitter), oltre che da SpaceX, con ripercussioni non da poco per l’azienda automobilistica.
Quando Musk aveva twittato di non aver alcuna intenzione di vendere altre azioni oltre al pacchetto da 8,4 miliardi di dollari, Tesla aveva guadagnato un 5% a mo’ di sospiro di sollievo. Quella vendita era stata necessaria per arrivare alla cifra pattuita per Twitter, finanziata per 20 miliardi di dollari da Morgan Stanley e per altri 21 miliardi di dollari da quello che Musk racimolava dalla vendita delle sue azioni, appunto. Così la preoccupazione.
Per l’imprenditore la causa principale risiedeva nella “estrema reazione anticorpale di coloro che temono la libertà di parola”, ma non è il free speech ad aver spaventato gli investitori. Piuttosto, la sua mancanza di cash aveva fatto presupporre che, se voleva trovare i soldi da qualche parte, era inevitabile che vendesse azioni di almeno una delle sue due aziende. Più della metà di quelle che possiede in Tesla – circa 88 miliardi di dollari – fungono da garanzia personale e, quindi, gran parte della sua ricchezza è legata alla società. L’azienda, inoltre, permette ai suoi dirigenti di prendere in prestito fino a un quarto del valore delle loro azioni, ma Musk lo aveva già fatto in passato e, al momento, il credito che può prendere dalla sua società è notevolmente inferiore al 25%.
Il secondo punto, che spiegherebbe la difficoltà del tycoon, arriva da un’esclusiva della Reuters. Musk sarebbe infatti in trattative con altre grandi aziende che possano finanziare parte di quei 44 miliardi di dollari. Un segnale che, se confermato, dimostrerebbe la necessità di un aiuto esterno per finalizzare l’acquisto di Twitter. In questo modo, infatti, Musk ridurrebbe il suo esborso da 21 miliardi di dollari in contanti. Così, società di private equity (come Apollo Global Management e Ares Management Corporation), hedge fund e altri soggetti dalle tasche molto larghe – tra cui sembrerebbe figurare anche il fondatore ed ex Ceo di Twitter, Jack Dorsey – starebbero ascoltando la proposta di Musk per poi fornirgli finanziamenti azionari privilegiati per l’acquisizione.
Secondo il Wall Street Journal, siccome una delle prime misure dell’era Musk sarà quella di tirare Twitter fuori dalla Borsa per svincolarlo dal controllo della Security and Exchange Commission, l’imprenditore potrebbe muoversi per quotarlo nuovamente entro cinque anni dall’acquisizione, così da garantire alle società di private equity (che sono solite acquistare società, risistemarle e poi rimetterle sul mercato) la sua intenzione di migliorare nel breve termine la redditività della piattaforma. Un modo, quindi, per rassicurare eventuali investitori.
Che dietro l’operazione ci potesse essere qualcun altro sembrava piuttosto chiaro vista l’impossibilità per Musk di sborsare in contanti una cifra simile e lo avevamo sottolineato anche in questo articolo. Situazioni che lasciano pensare come ultima ipotesi – e qui veniamo al terzo punto – che Elon Musk, in fin dei conti, potrebbe cambiare idea. Non sarebbe la prima volta, visto che in passato ha dimostrato di saper fare giravolte clamorose. Solo pochi giorni fa aveva sorpreso tutti non entrando nel cda di Twitter. Inoltre, l’ultimatum che aveva lanciato all’azienda (o accettate o vendo anche il 9,2% delle azioni appena comprate) aveva già fatto intendere che forse le sue intenzioni erano altre, ma c’è un elemento in più che darebbe forza a questa tesi. Qualora volesse ritirarsi dall’accordo, a Musk basterebbe infatti pagare un miliardo di dollari: una quantità di soldi sostenibile visto che stiamo parlando dell’uomo più ricco del mondo, e che finora questo scherzo gli è costato circa 30 miliardi di ricchezza personale solo per il danno fatto al titolo Tesla.
La stessa penale prevista per Twitter nel caso in cui fosse lei a tirarsi indietro, ma questa possibilità non sembra essere più possibile dopo l’apertura degli ultimi giorni. Anche perché gli avvocati dell’azienda hanno inserito la clausola chiamata “peformance specifica”, che dovrebbe costringere Musk all’acquisto. Come, quando e se davvero questo davvero si concretizzerà è però ancora tutto da scoprire: da qui alla fine dell’anno, quando ci sarà il closing, l’umore di Musk potrebbe cambiare altre 100 volte.