L’Italia assume ufficialmente il comando della missione Nato di addestramento in Iraq. Il generale Giovanni Iannucci ha rilevato la posizione dal generale danese Michael Lollesgaard, alla guida dell’impegno dell’Alleanza da maggio del 2021. Per l’operazione, il nostro Paese già schiera mille unità, con 270 mezzi terrestri e dodici mezzi aerei, e un budget di circa 260 milioni di euro, un dispositivo che sarà ora potenziato con nuovi arrivi dall’Italia. Ne parla il generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa, su Airpress di aprile 2022
L’Italia avvicenderà la Danimarca al comando della Nato training mission in Iraq. Non è né una sorpresa né un evento imposto. Il ministro Lorenzo Guerini ne aveva già fatto cenno alle commissioni Difesa oltre un anno fa e, successivamente, aveva proposto all’Alleanza la nostra candidatura, ufficialmente accettata e comunicata dal segretario generale Jens Stoltenberg non molto tempo dopo l’offerta. Il rilancio della missione in Iraq, arrivato (casualmente?) subito dopo l’annuncio di un sostanzioso ritiro americano, era dato per scontato. Infatti era chiaro che la Nato si sarebbe sentita in dovere di coprire il vuoto che avrebbero lasciato i soldati statunitensi, la cui presenza nel Paese non destava grande simpatia. E, questo, non solo dopo l’uccisione del generale dei pasdaran iraniani.
Generalmente l’Iraq non ci ha mai offerto buone notizie, e qui ricordiamo con rispetto l’eccidio di Nassiriya e il sangue versato da cinque nostri militari nel novembre 2019 nella provincia di Erbil. Ciononostante l’Iraq non è l’Afghanistan, e ancora una volta lo sottolineiamo con convinzione. Ha un suo potenziale che – pur stentando a emergere – a distanza ripagherà chi non lo ha abbandonato. Bene aveva fatto l’Italia a confermare, nonostante gli attacchi subiti dagli occidentali da parte dei partigiani sciiti nel “dopo Suleimani”, la propria presenza sul territorio con forze di élite di straordinaria capacità. Queste unità sono presenti anche a Baghdad, ma soprattutto nell’area di Kirkuk, dove le nostre Forze speciali addestrano gli iracheni del Counter terrorism service (Cts) e i peshmerga delle forze di sicurezza curde. Caso unico di rapporto positivo con il variegato mondo dei curdi, in questo affiancamento sono presenti anche militari turchi. Il nemico rimane ancora l’Isis, che cerca di trarre vantaggio dai vuoti lasciati dalla situazione politica e di sottolineare in modo cruento la propria presenza.
Dopo Saddam, il modello di potere centralizzato in Iraq non ha mai funzionato, né le elezioni che nel 2018 avevano portato al potere il moderato Adil Abd al-Mahdi hanno avuto effetto stabilizzante. Si contano una settantina di gruppi armati, con affiliazioni dentro e fuori il Parlamento. Gli americani sono intrappolati tra due fuochi. Da una parte i gruppi sciiti manovrati da Teheran (ma ricordiamo che non tutti gli sciiti iracheni, compreso il grande ayatollah al-Sistani, vedono di buon occhio le ingerenze iraniane) e dall’altra quelli sunniti, confluiti nell’Isis dopo che Obama, favorendo l’ascesa al governo dello sciita al-Maliki contro il vincitore delle elezioni, il laico indipendente Allawi – aveva di fatto sconfessato il tentativo del generale Petraeus di recuperare competenze e carisma di un certo numero di militari sunniti ex-Baath. Da qui, assieme al mismanagement degli aiuti e del supporto civile Usa, deriva la scontentezza degli iracheni. Se Barack Obama ha sbagliato, Joe Biden oggi sente l’esigenza di limitare i danni fatti dal suo principale sponsor dopo la guerra sbagliata di George Bush jr. e ha pensato di diminuire la percezione della presenza a stelle e strisce. Con l’aiuto del fedele Stoltenberg, ora prorogato per un anno, lo sta facendo. Per l’Italia questa è l’occasione per rimediare a un vecchio errore.
Infatti anche noi a suo tempo abbiamo sbagliato, lasciando troppo velocemente l’Iraq dopo i fatti di Nassiriya. Per noi l’Iraq si era già mostrato in varie occasioni luogo di interesse, con una nostra presenza varia e ricorrente. È vero che nel 1991 lo abbiamo bombardato con i Tornado, ma più pacificamente siamo poi ritornati a presidiare il Dhi Qar con “Antica Babilonia”. Abbiamo anche combattuto (chi ricorda la “battaglia dei ponti”?) per difenderci dagli irregolari dell’esercito del Mahdi. Siamo ritornati per la terza volta, e in forze, con “Prima Parthica”, nome suggestivo che a noi ricorda il grande Settimio Severo. Non solo, ma nell’ambito della coalizione “Inherent Resolve” abbiamo anche contribuito a organizzare contro l’Isis i peshmerga curdi e i governativi iracheni.
Se la continuità della nostra presenza in Iraq era ormai già data per acquisita, la nuova assertività dell’Unione europea verso la Nato a seguito della crisi russo-ucraina la rende ineluttabile e, probabilmente, duratura nel tempo. La pianificazione delle missioni internazionali in vigore aveva confermato la proroga del nostro assetto in Iraq con un impegno totale, allora, di mille unità, 270 mezzi terrestri e dodici mezzi aerei, per un impegno finanziario di circa 260 milioni di euro. Ora, con il conferimento del comando della missione, tutto andrà potenziato in proporzione anche con nuovi arrivi dall’Italia. Per quanto riguarda il nostro personale e i mezzi già presenti sul territorio, una parziale transizione verso la struttura Nato, che prevede una forza totale di quattromila militari, era già stata da tempo autorizzata.