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L’Italia è pronta per la transizione digitale. Colloquio con Ana Paula Assis (Ibm)

Cloud ibrido, intelligenza artificiale, cybersicurezza: ricette per favorire il successo del Pnrr e la modernizzazione delle aziende italiane ed europee. Al vertice della divisione Emea di Ibm, Assis spiega la forza europea sulle capacità e la ricerca, e la necessità di adottare le tecnologie più trasparenti e innovative per una transizione sicura ed efficiente

Ana Paula Assis guida la divisione Emea di Ibm da pochi mesi, ma sono 26 anni che lavora in azienda, ed è stata testimone di alcune trasformazioni che hanno portato quello che era il più grande produttore di personal computer a diventare una “open hybrid cloud and AI company”. Dopo aver inventato il bancomat e il floppy disk, aver sperimentato l’intelligenza artificiale prima che esistesse il concetto, e mantenendo da 60 anni una leadership nel settore del mainframe, oggi Ibm offre servizi e prodotti così diversi da non essere incasellabile insieme alle altre aziende tecnologiche.

Anche perché di alcune è fornitrice, di altre cliente, quasi mai rivale visto che il suo modello di business è difficile da replicare. Produce tecnologia avanzata e offre piani di consulenza e gestione dei dati, sviluppa software e investe miliardi in ricerca. In visita a Roma, al Centro Studi Americani, Assis ha incontrato un gruppo di manager, accademici, politici e giornalisti italiani.

Da che parte iniziare? Proviamo dalla fine, cioè dalle tecnologie su cui Ibm ha puntato molto negli ultimi tre anni: il cloud ibrido potenziato dall’intelligenza artificiale.

È un’opportunità di mercato da mille miliardi di dollari, perché per ora solo il 25% dei processi è stato trasferito su cloud pubblici. L’idea è offrire ai clienti la soluzione migliore indipendentemente da chi la sviluppa: noi, un’azienda partner o anche un nostro competitor. Si tratta di unire flessibilità, adattabilità, agilità e openness. Chi oggi vuole sfruttare le potenzialità del cloud magari ha già una sua infrastruttura o delle applicazioni che vuole mantenere, e il nostro obiettivo è rendere il processo più semplice possibile.

In un cloud ibrido si uniscono uno o più sistemi privati – anche on premise, sul posto – con infrastrutture di grandi aziende specializzate. Una strada che interessa anche alle pubbliche amministrazioni che vogliono mantenere il controllo su dati sensibili (dei cittadini) o strategici (dei governi).

Quando lavorano con le nostre soluzioni, le aziende o le pubbliche amministrazioni possono mantenere le chiavi di crittografia, e neanche i nostri team hanno accesso a quei dati. In ogni caso seguiamo noi tutti gli adempimenti: ci assicuriamo che le aziende coinvolte rispettino le regole applicabili, dal Gdpr alle normative nazionali e settoriali. Tutti i nostri servizi sono compliant by design e secure by design.

Questo modello permette di dividere i processi in piccoli “container” in cui girano i software che servono all’azienda, e che possono essere trasferiti facilmente da una piattaforma all’altra, senza rimanere inchiodati a un modello particolare.

Il nostro approccio mette al centro la piattaforma. I nostri clienti non guardano al nome del fornitore del servizio, che deve essere solo facile da integrare con le loro esigenze e utilizzabile ovunque. Noi partiamo avvantaggiati perché abbiamo una grande forza nella consulenza, data center di nostra proprietà oppure gestiti da nostri partner. E poi sviluppiamo intelligenza artificiale che rispetta i nostri principi etici e permette, oltre alla gestione migliore e più efficiente dei dati, di fornire insights su quei dati che finora le aziende non sapevano di avere. Oggi abbiamo più di 3.800 clienti (più di mille ne abbiamo aggiunti solo nel 2021).

Parliamo di cybersicurezza. Quali sono le principali vulnerabilità in Italia e quali le soluzioni per rafforzare le difese?

Secondo il nostro report del 2020, il costo medio di un data breach in Italia è stato di 2,9 milioni di euro. Una cifra enorme per le singole aziende e per il sistema in generale. Le cause principali sono attacchi malevoli (52%), errore umano (29%) e difetti nei sistemi (19%). Nel 2021 il settore finanziario è stato scalzato, nel mondo, dal titolo di più attaccato: oggi è il manifatturiero a essere il target principale. In Italia i numeri sono impressionanti: quasi metà degli attacchi (47%) hanno riguardato questo settore, mentre finanza e assicurazioni si sono fermate al 21%.

La soluzione immediata è affidarsi a soggetti che offrono servizi integrati sulla sicurezza, investire nella formazione dei lavoratori, adottare apparati moderni e protetti. Quella del futuro è il quantum computing, una tecnologia in cui siamo leader e che stiamo sviluppando secondo una roadmap chiara insieme a più di 180 società tra quelle dell’indice Fortune 500 e in collaborazione con diversi Governi. Sarà anche fondamentale per il mercato dell’energia, perché garantisce simulazioni immediate sui fabbisogni energetici, l’uso delle rinnovabili e le smart grid di nazioni e aziende.

Quali altre applicazioni garantiscono queste tecnologie?

Un esempio sono le catene di approvvigionamento, stravolte da pandemia e conflitto: le aziende avranno bisogno di ripensare a dove e cosa produrre, qual è il sistema di trasporto più efficiente, come automatizzare i processi, come usare la blockchain per garantire il passaggio delle merci dalla fabbrica attraverso i porti e fino ai centri di smistamento senza i giorni (o le settimane) che sono necessari per gestire i documenti e le autorizzazioni.

Qual è il contributo di Ibm ai Recovery Plan europei?

Siamo al fianco dei governi nello sviluppo di piani più efficienti e per la migliore allocazione delle risorse, ovviamente in prima linea nei processi di transizione digitale ed energetica e nel rafforzamento della sicurezza dei dati. Il fatto di lavorare in oltre 150 paesi ci permette di conoscere le best practices globali e di poterle adattare alle realtà nazionali.

Nel mondo ci sono 4 milioni di posti di lavoro nella cybersicurezza che restano vacanti. Come mai non si trovano esperti?

Sicuramente è necessario aumentare le competenze digitali, e noi stiamo facendo la nostra parte: da qui al 2030 puntiamo a formare e aggiornare 30 milioni di persone attraverso i nostri programmi. Però bisogna far conoscere ai ragazzi le strade verso queste conoscenze, che non per forza si acquisiscono in lunghi e complessi curriculum universitari. Ci sono corsi di due anni che abilitano tecnici informatici già a 18-20 anni. Questi ragazzi intanto entrano nel mercato del lavoro e poi potranno aggiornarsi e specializzarsi (più volte) nel corso della carriera. Infine, far capire che il digitale è reale: le catene di approvvigionamento, la salute, i trasporti, l’energia non sono concetti astratti, ma l’infrastruttura molto concreta delle nostre vite. Oggi è costruita sulla base di dati che presto o tardi passeranno per sistemi cloud e che devono essere protetti sia da tecnici esperti che da cittadini informati delle possibilità e dei pericoli di questa straordinaria rivoluzione.

Lei ha lavorato in posizioni di vertice in Nord e Sud America, e anche in Cina. Ora il suo ufficio è a Madrid. Cosa manca all’Europa per fare un salto verso il futuro?

Nulla. Gli europei hanno capacità, formazione di alto livello, ricerca avanzata. Certo, in Sudamerica e in Asia molti paesi hanno fatto dei doppi, tripli balzi in avanti in virtù del fatto che partivano più indietro rispetto ai paesi occidentali, e dunque hanno saltato a pié pari tecnologie che qui è più complicato abbandonare in tempi brevi. Ma è solo una questione di volontà, di guidare le iniziative e spingere verso soluzioni trasparenti, agili, sicure e innovative. Il nostro obiettivo, già raccontato l’anno scorso, è di metterci al servizio di un’Italia future ready, e molto si è mosso in questi mesi: siamo passati dalla visione all’esecuzione.

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