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Perché il petrolio degli ayatollah ora conta. L’analisi di Bressan

Oggi, dopo le sanzioni imposte dall’occidente alla Russia, appare più che mai evidente quanto il greggio iraniano torni a essere centrale. Un nuovo accordo sul nucleare vedrebbe il ritorno del petrolio di Teheran sul mercato, in un momento in cui la carenza di approvvigionamento energetico e la volatilità del sistema internazionale ne hanno aumentato il costo fino a un livello senza precedenti. L’analisi di Matteo Bressan, docente di Studi strategici presso la Sioi e analista della Nato defense college foundation

I negoziati tra i partecipanti del Joint comprehensive plan of action (Jcpoa) – Cina, Unione europea, Francia, Germania, Iran, Russia, Regno Unito – e gli Stati Uniti sono ripresi ad aprile 2021. Poi, però, le parti non sono state in grado di raggiungere un accordo prima delle elezioni presidenziali iraniane di giugno e, quando i colloqui sono ripresi lo scorso 29 novembre a Vienna, il governo conservatore iraniano del presidente Ebrahim Raisi ha assunto una posizione massimalista, mostrando tuttavia elementi di flessibilità.

Più di recente i Paesi del Jcpoa si sono avvicinati a un accordo, fino a quando però Stati Uniti e Unione europea non hanno imposto le sanzioni alla Russia per l’invasione dell’Ucraina. Mosca ha quindi chiesto che i futuri scambi commerciali con l’Iran non fossero condizionati dalle sanzioni occidentali, causando di fatto così una sospensione del lavoro dei colloqui di Vienna. Lo scorso 15 marzo, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ricevendo l’omologo iraniano Hossein Amir Abdollahian, affermava che le trattative sul nucleare iraniano fossero vicine al traguardo e di aver ricevuto garanzie scritte da Washington sul fatto che le sanzioni occidentali nei confronti della Russia non avrebbero influito sulla cooperazione con l’Iran nel quadro dell’accordo nucleare.

In tale contesto, con gli Stati Uniti che hanno interrotto le importazioni di petrolio russo e l’Unione europea che cerca di ridurre la propria dipendenza energetica da Mosca, il greggio iraniano torna a essere centrale. Un nuovo accordo vedrebbe il ritorno del petrolio iraniano sul mercato, in un momento in cui la carenza di approvvigionamento energetico e la volatilità del sistema internazionale hanno portato il costo del greggio a un livello senza precedenti.

Secondo l’economista per l’area Mena della società londinese Capital economics, James Swanston, un nuovo accordo infatti “aumenterebbe le forniture globali di petrolio e potrebbe esercitare una pressione al ribasso sui prezzi” e “potrebbe aiutare ad allentare le tensioni geopolitiche nella regione”. Oggi i punti critici che ruotano intorno al possibile accordo riguardano aspetti relativi alle sanzioni tra i quali l’inserimento, adottato nel 2019 dall’amministrazione Trump, del Corpo delle guardie della Rivoluzione islamica (Irgc) nella lista delle organizzazioni terroristiche.

Per Teheran tale decisione è stata un colpo durissimo, poiché l’Irgc è un organo dello Stato iraniano e simili catalogazioni solitamente sono applicate ad attori non statuali. Sul fronte statunitense, l’amministrazione Biden sembra orientata a respingere la richiesta iraniana di revocare l’inserimento del Corpo delle guardie della Rivoluzione islamica dalla lista delle organizzazioni terroristiche come condizione per il rinnovo dell’accordo nucleare del 2015. Presupposto questo che però rischierebbe di far naufragare il negoziato.

Inoltre, nel caso in cui l’Irgc venisse rimosso dalla lista, resterebbe comunque in vigore una lunga serie di sanzioni che renderebbero altamente improbabili per l’Irgc affari e operazioni economiche. D’altro canto, la prospettiva di un ritorno all’accordo non ha soddisfatto gli alleati di Washington del Golfo arabo, in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, due dei principali produttori di greggio facenti parte del cartello Opec e competitor regionali dell’Iran.

Infine, il governo israeliano continua a ribadire che l’accordo è pericoloso e che spetta a Israele fare tutto il possibile per convincere gli americani e i restanti partner a evitare di firmarlo. Tuttavia, secondo altre valutazioni dell’establishment israeliano, al momento l’accordo, sebbene resti pessimo e rischioso, risulterebbe la migliore opzione disponibile. Per Ben Caspit, editorialista per Al-Monitor, la ripresa dei negoziati per l’accordo del 2015 tra l’Iran e le potenze mondiali garantirebbe a Israele e ai suoi alleati regionali almeno altri otto/nove anni di relativa calma, prima che l’Iran possa essere in grado di riprendere la propria corsa alla bomba.

Questa pausa consentirebbe a Israele di rafforzare le proprie capacità difensive e di completare la costruzione dell’alleanza regionale di contenimento anti-iraniano. Infatti, oggi, Israele e i suoi alleati regionali lavorano già allo sviluppo di un sistema di difesa comune, il cosiddetto Middle East air defense (Mead), per contenere e prevenire la minaccia costituita da droni e missili iraniani. L’opportunità di realizzare una coalizione tra Stati per la difesa aerea è il frutto degli accordi sostenuti dall’amministrazione Trump per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i Paesi arabi, inclusi gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain.

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