In Italia la guerra russa in Ucraina devasta gli aggregati politici a destra e sinistra. E riaccende il fuoco del dibattito su una legge proporzionale che faccia contenti (quasi) tutti. Il mosaico di Carlo Fusi
Come e più del Covid, la guerra tra Russia e Ucraina cambia gli equilibri geo-politici e, in Italia, devasta gli aggregati di centrodestra e centrosinistra, peraltro già liquefatti di loro.
In questa situazione e in vista delle elezioni del 2023, cresce – ed una attitudine che sempre emerge in temporale prossimità dell’apertura dei seggi – si fa largo la tentazione di superare le impasse politiche mediante la modifica del meccanismo di voto. Traduzione: passare dall’attuale maggioritario ad un proporzionale più o meno puro, dipende dalla soglia di sbarramento.
Tentazione non nuova nel Palazzo che, volendo essere immaginifici, è figlia della solitudine dei numeri primi, cioè del fatto che il o i partiti più grandi almeno stando ai sondaggi, e cioè Pd e Fdi, coltivano l’ambizione di presentarsi da soli di fronte agli elettori. Chiedendo loro di premiarli per questa scelta e, poiché nessuno può coltivare la vertigine di ottenere il 51 per cento, rimandando la formazione delle coalizioni ai successivi giochi in Parlamento.
In realtà stavolta più che di solitudine bisognerebbe parlare di separatezza, perché la tentazione cenobita è il portato della crescente impossibilità di combinarsi con gli attuali compagni di viaggio. Nel centrodestra, l’orgogliosa anche se un po’ affrettata rivendicazione atlantista, diciamo così, di Giorgia Meloni si scontra con le ambiguità filo-russe di Salvini e Berlusconi.
Nel centrosinistra, il progressivo allontanamento di Giuseppe Conte da Draghi fa scattare vistosi segnali di allarme nel Pd che invece con Enrico Letta sulla guerra ha preso una posizione assai forte e intende rimanere a fianco del presidente del Consiglio. Vero è che entrambi gli schieramenti tendono a minimizzare, com’è ovvio, le divaricazioni perché l’attuale sistema di voto spinge alle coalizioni al fine di conquistare i seggi uninominali, fondamentali per vincere.
Tuttavia al tempo stesso la consapevolezza che stare assieme come ora forse produce il successo nei seggi ma poi rende praticamente impossibile governare, vellica appunto la tentazione di correre in solitaria. Con il proporzionale se si riuscirà a vararlo (difficile), ma addirittura anche con il Rosatellum se la situazione dovesse peggiorare.
C’è una questione di agibilità politica dietro, come detto. Ma c’è anche una questione identitaria: allearsi con un altro partito che marcia in direzione diversa non offre l’immagine, per stare al lessico della prima Repubblica, di possibili convergenze parallele bensì di incoerenza e scollamento. E c’è un limite anche per queste pur nella fase storica in cui i leader politici si permettono di dire tutto e il suo contrario convinti di non pagare dazio sul piano dei consensi.
È evidente che si tratta di mosse prodotte dalla disperazione più che dalconvincimento. E sono il frutto anche del progressivo sfarinamento della maggioranza di larghe intese, dove ormai tra SuperMario e alcuni dei partiti che lo sostengono, M5S innanzi tutto, si è scavato un fossato non più colmabile.
Se davvero il proporzionale possa essere la panacea dei nodi politici è difficile dire. Certamente in campagna elettorale può funzionare appunto sotto il profilo identitario. Ma costringe a vedere in chi è più vicino il peggior avversario perché pesca nello stesso bacino di consensi. Il che vuol dire che gli attacchi e le accuse cresceranno invece di diminuire. E soprattutto significa che una volta spenti i fuochi d’artificio elettorali, bisognerà tornare a parlarsi dopo essersi, per fortuna metaforicamente, sparati addosso.
Nella prima Repubblica qualcosa del genere accadeva tra Dc e Psi nel duello tra De Mita e Craxi. Ma lì vigeva la conventio ad excludendum che impediva intese col il Pci. Perciò i litiganti potevano dirsene quante ne volevano ma poi sempre a loro bisognava tornare per garantire la governabilità. Adesso non è più così, ma le mosse spregiudicate – vedi Salvini che lascia il centrodestra per fare il governo con il M5S – non è detto portino fortuna. Anzi.
Il pericolo è che l’eccesso di disinvoltura nel creare combinazioni e accordi con quelli che fino ad un attimo prima erano indicati come avversari perfino pericolosi, allontani ancor più i cittadini dalla politica, fomentando esiziali fenomeni di disaffezione o, peggio, ribellione.
Ancor più impervio appare andare da soli (e infatti è una tentazione che fa capolino solo per essere negata) in un quadro maggioritario. Se lo fa solo uno dei due partiti maggiori, di fatto consegna la vittoria all’altro su un piatto d’argento, stimolandolo come in un riflesso condizionato ad allearsi con altri per conquistare la maggioranza dei seggi.
Se lo fanno entrambi (ipotesi estrema qui esaminata per puro amore di ragionamento), nel Parlamento ridotto – bene non dimenticarlo – di un terzo dei componenti, ci saranno solo perdenti e nessun vincitore. E poiché Fdi e Pd non sono compatibili, il risultato sarà un aumento dell’entropia politica. Non l’esito migliore in considerazione dei drammatici problemi sul tappeto.