Da Beirut viene respinto il paradigma anti-sunnita che in questi anni è stato proposto in Siria, Iraq, Libano: un paradigma che faceva degli arabi cristiani i sostenitori di una disegno funzionale alla teoria dello scontro di civiltà
Per capire realmente dove sia il Libano dopo le elezioni parlamentari di domenica scorsa e perché questo voto così oscuro sia importantissimo – ma non risolutivo – per tutto il Levante occorre fare una forzatura e provare a tradurre in un comprensibile ipotetico scenario italiano quello loro.
Immaginiamo che in Italia vi fosse una forte comunità ortodossa, lungamente discriminata dalla maggioranza cattolica. Immaginiamo che questa minoranza avesse costituito, dopo l’emergere di un protagonismo putiniano, un partito pro russo, con un suo braccio armato, rifornito di armi tra le più sofisticate e avanzate da Mosca, al punto da essere molto più forte del nostro esercito. Immaginiamo che il partito pro-russo abbia monopolizzato la rappresentanza della numerosa comunità ortodossa italiana e che, in virtù della sua forza parlamentare, abbia trovato delle alleanze che gli hanno consentito di eleggere esponenti graditi quali capo del governo e Presidente della Repubblica. Arrivando le elezioni, il voto è evidentemente chiamato a dare stabilità a questo assetto e il fortissimo braccio armato di questo partito ne è lo strumento più importante, sia in funzione dei rapporti con i nostri vicini sia del consenso da ottenere con le buone o le cattive all’interno. Le urne però determinano un risultato sorprendente: gli ortodossi confermano la loro fedeltà politica al partito pro russo italiano, ma tutti gli alleati escono sconfitti dalle urne. Vince chi ha detto che così l’Italia rischiava di diventare una colonia di Mosca, controllata da una sua milizia sempre più forte. Ora però il nuovo capo del nuovo governo e il nuovo Presidente della Repubblica non potranno essere espressi dal blocco sconfitto, che non ha più una maggioranza.
È solo mettendola così che riusciamo a capire perché molti giornali libanesi oggi dicano che si vedono le luci di una nuova alba e altri obiettano che però il problema rimane: quella unica milizia in armi, cioè i khomeinisti di Hezbollah, filo iraniani, altera il gioco politico interno e può determinare conflitti che riguarderebbero però tutti i libanesi. Resta il fatto però che la manovra politica è fallita, la luce può essere vista, sebbene il cielo sia oggettivamente nuvoloso.
Nessuno in Libano si illude che il braccio militare di Hezbollah, il partito khoeminista che domina sulla comunità sciita milizianizzandola, possa essere sciolto, ma sa che o si arriverà a integrarla nell’esercito e quindi sotto il comando dello Stato Maggiore Nazionale, o la situazione non cambierà. Nella grande astensione che ha visto non andare alle urne più della metà dei libanesi moltissimi però sono anche sciiti, segno di una disaffezione dal partito in armi che conta molto, come in quella rivale, la comunità sunnita, ormai priva di un leader politico, di un partito di riferimento, ma nella quale i candidati sostenuti da Hezbollah sono stati bocciati. Il futuro sunnita è dunque la grande incognita.
Diverso è il discorso per i cristiani. Qui la partecipazione al voto è salita, tutti avevano capito che o si sceglieva di stare con il partito del Presidente della Repubblica, Michel Aoun, alleato di Hezbollah, o con il suo rivale, Samir Geagea. Ha vinto il secondo, ha perso malamente il primo. La sconfitta di Aoun manda in soffitta la linea proposta dal Libano a tutti gli arabi cristiani: alleiamoci con i khomeinisti, la minoranza dell’islam, contro i sunniti, la maggioranza dell’islam che essendo tale non ci rispetterà mai. Questa visione, definita “alleanza delle minoranze”, metteva i cristiani contro una comunità di fede. Ma il cristiano Samir Geagea se oggi appare il vero alleato dei nemici regionali dell’Iran, cioè dei sauditi, non sembra il leader capace di rifare il Libano della convivialità tra diversi. È espressione da sempre di quella politica feudale, come tutti gli altri partiti confessionali, che i libanesi votano sempre di meno, per mancanza di alternative. Ecco perché i votanti sono diminuiti, tranne nel campo cristiano che si sentiva chiamato a respingere un’opzione ritenuta mortale. Ma la morte oggi può venire anche dal collasso economico del Paese, che se è stato aggravato dall’esplosione del porto per la quale Hezbollah ha ostacolato in ogni modo ogni indagine, è stato causato da tutti i partiti tradizionali: definiti la casta e contestati in blocco dalla società civile dal 2018.
Questa società civile, mai riconosciuta come interlocutore né dalle potenze regionali né dall’Europa né dagli Stati Uniti, è riuscita a portare da sola, senza sostegni, più del 10% degli eletti, 13 su 128. In Parlamento siedono in tutto otto donne, quattro delle quali elette tra i 13 della società civile. È un risultato che nessuno aveva previsto, e che in molti collegi ha determinato la sconfitta degli alleati di Hezbollah. Ma ora? Saranno fagocitati da chi da decenni ha confiscato la politica per se stesso e i propri interessi, saccheggiando le risorse e le opportunità del Paese? O riusciranno a sfidarli dall’interno del Parlamento?
L’impresa appare disperata e molti dubitano che possa anche essere giocata. Il Libano nelle prossime settimane deve firmare riforme strutturali pesantissime per avere il prestito di 3 miliardi di dollari del Fondo Monetario Internazionale senza il quale morirebbe. Senza interlocuzione con i distratti leader europei, con le armi di Hezbollah che sanno far valere altri argomenti, potranno gli eletti della società civile farsi sentire?
La storia ha dimostrato che il Libano, dato per spacciato da quando è nato, è sempre sopravvissuto; sperare è possibile anche questa volta, ma non è il caso di farsi illusioni. Servirebbe piuttosto un’Europa che però non si vede. Resta evidente e innegabile la forza del dato politico: da Beirut viene respinto il paradigma anti-sunnita che in questi anni è stato proposto in Siria, Iraq, Libano: un paradigma che faceva degli arabi cristiani i sostenitori di una disegno funzionale alla teoria dello scontro dei civiltà.