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Libano. Il voto, i nuovi equilibri, gli effetti sulla regione

Hezbollah e alleati non hanno più la maggioranza e, dopo le recenti elezioni, le trattative per il futuro governo in Libano sembrano sempre più problematiche. Il rischio è che si creino forme di sfogo violento e tensioni che possono allargarsi alla regione. Occhi puntati sulla Blue Line al confine israeliano, dove la stabilità è garantita dalla missione Onu a guida italiana Unifil

“Informate le forze di sicurezza del Parlamento che i rivoluzionari del 17 ottobre sono entrati in Piazza Nejmeh (sede dell’assemblea parlamentare del Libano, ndr), ma questa volta da deputati”, commenta l’attivista libanese Rula El Halabi dopo i risultati delle elezioni. È una reazione frutto di uno slancio ottimistico, il primo bilancio del voto parlamentare celebrato il 15 maggio dice che in Libano avviare un processo di riforme quanto meno sembra possibile. I sollevamenti popolari del 17 ottobre 2019, nati sotto il peso di una crisi economica e istituzionale pesantissima e ad oggi peggiorata, si portavano dietro la speranza di un Libano diverso e  la richiesta di una politica nuova e meno corrotta. Il voto dice che qualcosa si muove.

Diversi candidati indipendenti sono stati eletti, e le storie di alcuni di loro raccontano in parte questa volontà di cambiamento. Come quella dell’avvocato trentenne Firas Hamdan, eletto battendo il banchiere Marwan Kheireddine, candidato vicino a Hezbollah. Hamdan è stato un attivista nelle proteste popolari del 2019 e del 2020, ferito al cuore durante la violenta repressione con cui le forze di sicurezza reagirono alle manifestazioni che seguirono l’esplosione nel porto di Beirut — immagine simbolica dei guai del Paese. Lanciatosi in politica tra i “candidati della rivoluzione” (murashahin al-thawra) si è fatto largo tra le minacce di Amal e di Hezbollah, candidandosi in una delle loro roccaforti.

Arretra Hezbollah

Se avanzano alcuni dei partiti alternativi — per esempio il Movimento Patriottico Libero del presidente Michel Aoun non è più il principale rappresentante dei cristiani, sostituito dalle Forze Libanesi di Samir Geagea, nemico acerrimo del regime siriano e di Hezbollah, figura controversa in cerca di una nuova identità politica — arretrano le formazioni classiche. I libanesi le inquadrano come colpevoli dei problemi del Paese. Hezbollah e alleati su tutti, hanno perso la maggioranza e — contrariamente a chi prevedeva un loro rafforzamento — hanno visto calare i consensi.

Hezbollah, Amal, il Movimento Patriottico Libero e i gruppi politici minori a loro collegati contano insieme solo 62 seggi parlamentari dei 65 necessari per avere il controllo sui 128 totali. Una situazione complessa che si porta dietro l’esperienza delle elezioni precedenti del 2018, quando ci vollero tredici mesi per formare un governo. La rinuncia di Saad Hariri, e il boicottaggio delle elezioni da parte del suo Movimento del Futuro, sono un altro fattore che renderà complicato districare il nodo dell’esecutivo.

C’è un elemento ulteriore di valutazione però: è vero che Hezbollah ha perso consensi e maggioranza, ma è altrettanto vero che le opposizioni non sono allineate. La frammentazione potrebbe portare attori minori a scelte pragmatiche — e come visto si corre sul filo di pochi seggi. Va inoltre considerato che Hezbollah ha da poter giocare la carta ibrida della violenza. Il Partito di Dio è ancora in grado di movimentare persone da far scendere in strada per mettere pressione. “Fate attenzione alla vostra retorica, al vostro comportamento e al futuro del vostro Paese. Non alimentate le fiamme della guerra civile”, ha minacciato Mohammad Raad, numero due di Hezbollah che nel 2006 fu messo dall’ideologo Hassan Nasrallah alla guida dei negoziati per la tregua nel conflitto con Israele.

Rischi e minacce

“Vi accettiamo come avversari in Parlamento, ma non vi accetteremo come scudi che proteggono gli israeliani”, ha aggiunto Raad dimostrando come oltre al sollevamento di disordini interni — e le azioni contro i rivali politici — anche il tema internazionale sia sul tavolo. Da sedici anni Hezbollah e Israele sono in tregua, ma la guerra non è mai finita: anzi, i miliziani libanesi hanno ricevuto importanti rifornimenti militari dai Pasdaran — sfruttando gli undici anni di caos prodotto dalla guerra civile siriana — e sono pronti a usarli contro lo Stato ebraico. Anche come potenziale leva e diversivo sulle dinamiche politiche interne.

Oggi, domenica 22 maggio, il nuovo Parlamento si insedia con l’obiettivo di creare un esecutivo entro il 6 giugno. Da cosa succede in questi step immediatamente successivi al voto passa buona parte del futuro a breve termine del Libano, che peraltro avrebbe una roadmap di riforme da costruire come promesso al Fondo monetario internazionale — che ha annunciato a inizio aprile di aver raggiunto un accordo di principio con le autorità libanesi per un piano di aiuti di tre miliardi di dollari in quattro anni. Il finanziamento che potrebbe essere concesso al Libano rientra nell’Extended Fund Facility, e sarà soggetto all’approvazione definitiva degli organi di controllo del Fondo. “Le autorità libanesi hanno deciso di intraprendere diverse riforme chiave prima della riunione del consiglio del Fmi”, si leggeva nella nota che invitava già gli analisti alla cautela rispetto all’erogazione effettiva e in tempi brevi dei finanziamenti.

Secondo la Banca Mondiale, la crisi finanziaria libanese è una delle tre peggiori crisi economiche del mondo dalla metà del XIX secolo. Il Libano è a un bivio. Il voto è stato un brutto colpo per Hezbollah e per il partito del presidente Aoun, mentre tra pochi mesi si dovrà scegliere il prossimo capo dello stato (che secondo il confessionalismo libanese dovrà essere un cristiano maronita). Gli indipendenti e i movimenti anti-establishment hanno ottenuto 13 seggi, una vittoria considerevole per coloro che si oppongono all’élite libanese — se si pensa che nel 2018 fu eletto solo un indipendente. Senza una seria riforma politica ed economica, il Paese continuerà la sua spirale discendente verso l’instabilità e, anche se con le elezioni è stata parzialmente espressa la volontà di cambiamento dei libanesi, la paralisi politica non sembra superata.

La crisi interna e la Comunità internazionale

Il motivo sostanziale per cui l’insoddisfazione è così alta è che dal 2019 il governo libanese ha dato priorità alla propria sopravvivenza piuttosto che alle necessarie riforme. Diversi primi ministri hanno lottato per risolvere la crisi socio-economica profondamente radicata in Libano senza successo. Il Covid e l’esplosione del porto di Beirut nel 2020 hanno solo peggiorato la situazione e il risentimento popolare. La carenza di cibo, gas ed elettricità è diffusa e nel 2021 e 2022 si sono verificati numerosi scontri tra sostenitori di diverse fazioni politiche.

Il sostegno della Comunità internazionale al Libano, a cominciare dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, si è concentrato sulla fornitura di presidi sanitari (soprattutto vaccini) anti-Covid e sull’alleggerimento della carenza di elettricità, mediando accordi su forniture con Giordania ed Egitto. Usa e Ue non sono stati sufficientemente proattivi nel pensare strategicamente ai rischi e alle opportunità future e alle più ampie implicazioni regionali. Che ora emergono come conseguenze del voto di una settimana fa.

Iran e Jcpoa, Israele e Unifil

I risultati delle parlamentari libanesi hanno nei fatti rafforzato la posizione dell’Arabia Saudita e indebolito quella dell’Iran e della Siria nel Paese. Molto dipenderà dal procedere o meno dei contatti tra Teheran e Riad, perché (come già successo) Beirut potrebbe essere uno dei terreni di attrito — con Hezbollah, politicamente, ideologicamente e militarmente collegata ai Pasdaran che ha intenzione di non retrocedere ed è pronta a tutto per proteggere i propri interessi.

Il rischio su questa situazione (come in altre nella regione) è che l’attenzione e la concentrazione dedicata alla guerra russa in Ucraina, e al contenimento globale della Cina, aumentino l’intensità dell’arretramento strategico in Medio Oriente tralasciando l’obiettivo del raggiungimento di una sostanziale stabilità. E il quadro che si prospetta a Beirut nei prossimi mesi è tutto fuorché stabile: il rischio, come detto, è che le tensioni sulle trattative per il nuovo governo sfocino in fenomeni di violenza e destabilizzazione anche regionali.

Parte di ciò che accadrà passerà anche dalla ricomposizione dell’accordo Jcpoa sul nucleare iraniano. Se Teheran accetterà un’intesa allora teoricamente potrebbe tenere calmi i propri proxy (come Hezbollah, anche se cresciuto a livello di autonomia strategica negli anni). Ma è anche possibile che questi siano usati come forze per scomporre eventuali nuovi equilibri da chi all’interno dell’establishment iraniano ha sempre visto il Jcpoa come un nemico ideologico (in quanto apriva al dialogo con l’Occidente e col “Grande Satana” americano) e soprattutto d’interesse (perché avrebbe modificato posizioni di potere interne).

In questo quadro il Libano rischia di essere un moltiplicatore di caos sulla costa orientale del Mediterraneo — area strategica anche per le forniture energetiche e già scomposta da tensioni di vario genere. Un centro di attenzione per l’Italia: al comando del Generale di Brigata Massimiliano Stecca, operano 3800 Caschi Blu di 16 dei 46 paesi contributori alla missione onusiana UNIFIL, tra i quali circa mille militari italiani. Monitorano la cosiddetta Blue Line, settore di contatto tra Israele e Libano — area sotto il controllo territoriale (simil-mafioso) dei miliziani di Hezbollah. Là, segnala il ministero della Difesa, occorrerà incrementare le attività di pattugliamento visto il particolare momento storico che il Libano sta attraversando a causa dell’importante crisi socio-economica e politica e dei rischi collegati.



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