Manca poco più di un mese al summit della Nato a Madrid che potrebbe aprire le porte a Svezia e Finlandia e rivelerà il nuovo Concetto strategico. Ma la strada è piena di ostacoli: dal fianco Sud alla furia dei Baltici fino alla sfida cinese, una mappa delle correnti
Non è priva di ostacoli la strada che porterà Svezia e Finlandia a varcare il portone della Nato. Il tappeto rosso è stato già steso: dopo il voto quasi unanime dei Parlamenti di Helsinki e Stoccolma, il segretario generale Jens Stoltenberg ha ricevuto i rispettivi ambasciatori con le richieste formali di adesione. Le jeux soint fait? Non così in fretta.
C’è il muro turco da scavalcare e non sarà una passeggiata. Ridurre a un cinico calcolo negoziale l’opposizione di Recep Tayyip Erdogan rischia di indurre a un abbaglio. Il messaggio a Washington è arrivato: se il Congresso americano sblocca la partita dei caccia F-16 destinati ad Ankara congelata da mesi il muro di Erdogan potrebbe mostrare le prime crepe.
E però la vicinanza dei due Paesi scandinavi ai “terroristi” curdi, come recrimina il presidente turco, è un dato di fatto. Sabato scorso, per dirne una, si è riunito a Stoccolma il Consiglio democratico siriano (Sdc) con la benedizione del ministero degli Esteri svedese e l’intervento in collegamento di esponenti siriani dello Ypg, il gruppo cui Erdogan dà la caccia. A qualcosa bisognerà rinunciare: e siccome la Nato non è disposta a uno strappo con il suo bastione turco nel Mediterraneo orientale, saranno Svezia e Finlandia a dover rivedere con qualche accorgimento la kurdish connection.
I mediatori sono al lavoro, la diplomazia parla dietro le quinte. Anche l’Italia può fare il suo, e certamente se lo aspettano i due Paesi aderenti, come confermato da fonti finlandesi a Formiche.net alla vigilia dell’incontro a Roma tra Mario Draghi e la premier Sanna Marin. Sembrano già lontani i tempi in cui il presidente del Consiglio dava del “dittatore” ad Erdogan: l’intesa Roma-Ankara è forte e lo dimostra il primo summit bilaterale in Turchia in dieci anni, annunciato da Draghi in Parlamento per il prossimo luglio.
I mal di pancia turchi però sono solo la punta dell’iceberg. Dietro l’apparente sinfonia dell’orchestra Nato di fronte alle due nuove adesioni si cela infatti un variopinto puzzle di posizioni nazionali difficili da conciliare. All’appuntamento su cui tutti i riflettori sono puntati manca poco più di un mese: il summit dell’Alleanza a Madrid, in programma per il 29 e il 30 giugno. Qui sarà rivelato il nuovo Concetto strategico, cioè il documento che ogni dieci anni traccia la road map della Nato per i dieci successivi. L’ultimo porta la firma di una gigante della diplomazia internazionale: Madeleine Albright, l’iconica ex Segretaria di Stato americana scomparsa quest’anno. Ma in politica estera dieci anni sono un’era geologica.
Nelle intenzioni iniziali, il nuovo documento doveva confermare un trend identitario dell’Alleanza: la Russia è il principale rivale sistemico e la minaccia più immediata alla sicurezza degli Stati membri. Un dato di fatto da quando Vladimir Putin ha tentato di riscrivere la storia con l’invasione di Donbas e Crimea nel 2014. Peccato che l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio abbia cambiato le carte in tavola: Mosca non è solo un rivale, adesso è ufficialmente un avversario. Di qui la febbrile attività di riscrittura in corso da settimane e tutt’altro che finita. La stessa che, contemporaneamente, ha costretto gli strateghi del Pentagono a rimandare la pubblicazione dell’attesa Strategia per la Difesa nazionale americana: doveva essere tutta incentrata sulla sfida cinese nell’Indo-Pacifico, sarà rivista alla luce dell’aggressione russa in Est-Europa.
Sui fondamentali della guerra i 30 Stati membri cantano in coro: la Russia putiniana deve pagare un prezzo alto. Ma il diavolo come sempre è nei dettagli. È sul “come” che bisognerà trovare una quadra. Il dossier toglie il sonno ai padroni di casa: a Madrid, confessano fonti diplomatiche spagnole, già si immaginano un comunicato finale annacquato, generico quanto basta. Le posizioni sono diverse, a tratti opposte.
I Paesi Baltici e alcuni Paesi Est-europei, Polonia in testa, tifano per una guerra no-stop. Complice la revanche storica contro la dominazione sovietica, spingono per inviare armi pesanti alla resistenza ucraina e non vogliono sentir parlare di un cessate-il-fuoco finché l’ultimo scarpone russo non avrà lasciato la terra occupata. Una posizione che guadagnerà forza con l’entrata nella Nato di svedesi e finlandesi.
Di qui le preoccupazioni del fianco Sud. Spagna, Italia, Grecia, Portogallo non a caso hanno riallacciato i contatti negli ultimi mesi: una Nato con un baricentro troppo orientato a Nord rischia di disinteressarsi del Mediterraneo. Con buona pace della minaccia terroristica, delle implicazioni militari dei flussi migratori e dell’instabilità dell’Africa settentrionale e saheliana, oltre che delle tensioni (anche fra alleati, ad esempio tra Grecia e Turchia) nell’East-Med. Una polveriera pronta ad esplodere con la crisi alimentare africana innescata dal blocco del grano ucraino e russo e l’instabilità geopolitica che inevitabilmente farà seguito alla fame.
In mezzo c’è l’Europa che conta, Francia e Germania in testa, e che in mezzo vuole restare: da Olaf Scholz a Emmanuel Macron fino allo stesso Draghi, nessuno immagina un futuro con una Russia completamente tagliata fuori dalla comunità internazionale e trattata come Stato paria.
Una quarta linea di faglia si intravede già a Madrid. L’amministrazione Biden, forte di un fronte bipartisan nella politica americana, lo ha detto chiaramente: la guerra in Europa non deve distogliere dalla prima sfida strategica e militare, la Cina di Xi Jinping. Da tempo sale il pressing americano per immaginare una Nato che guardi anche al Pacifico e parli con gli alleati chiave nella regione, dall’Australia al Giappone. L’idea piace ai Baltici – Lituania, Estonia e Lettonia hanno un conto in sospeso con Pechino – e ad alcuni Paesi est-europei. Molto meno nelle cancellerie di Roma, Parigi e Berlino dove lo scenario di una Guerra fredda su due fronti e di un reshoring anti-cinese fa ben pochi proseliti.