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La grande marcia (indietro) di Putin

La marcia di Putin contro l’Occidente è iniziata più di dieci anni fa, ma abbiamo fatto finta di non vedere. Con la parata del 9 maggio il capo del Cremlino chiude una parabola e ne apre un’altra dagli esiti pericolosamente incerti. Il commento del generale Mario Arpino

La Parata Militare sulla Piazza Rossa di Mosca, che i questi giorni compare e scompare dai titoli della carta stampata e dei social, ha una storia che viene da lontano. I cittadini dell’Unione Sovietica prima e della Federazione russa poi la avvertono moltissimo come cosa propria, che tocca il loro orgoglio, perché la data 9 maggio rappresenta la fine di quella “guerra patriottica”  che, al costo di milioni di morti, con il supporto logistico Usa ha contribuito in misura determinante al fallimento del disegno hitleriano di asservimento dell’Europa. È esattamente ciò che sta facendo oggi l’Ucraina, con l’aiuto dell’Occidente. La “rappresentazione” è stata sempre considerata anche come la vetrina, esposta al mondo via TV, della forza, la qualità e la potenza delle Forze Armate con la stella rossa. Un misto di autocompiacimento e di monito, quando di non espressa minaccia.

Ora, un ricordo personale. Una sessantina d’anni orsono, era un pomeriggio del maggio 1961, sull’aeroporto di Istrana (Treviso) ero il n.° 2 della coppia che, 24 ore al giorno, pronta in 5 minuti con due caccia F-86 K sempre armati con due missili e 4 cannoni da 20 mm, faceva la guardia al confine orientale. Non era un gioco, venivamo fatti partire abbastanza spesso, in genere per identificare voli sull’Adriatico o per controbilancire qualche traffico sospetto sull’altra sponda.

Nell’attesa, c’era preparazione di intelligence sui mezzi sovietici, qualche partita a pinnacolo in quattro (un’altra coppia era pronta in 30’) e un po’ di televisione in bianco e nero. Quel giorno, mi ricordo di aver visto per la prima volta qualche schermata della parata sulla Piazza Rossa, e di esserne rimasto piuttosto colpito. “Che dici, Gianfranco, ce la facciamo contro di questi?”, chiesi al mio capo coppia, poco più anziano di me. “Tu non ti preoccupare, Mario. Se ci chiamano, partiamo. Il resto lo vedremo per aria…”. Questo era il clima durante la Guerra Fredda.

Dopo che Ronald Reagan, con una politica di logoramento intelligente, senza sparare un solo colpo vinse questa “guerra” provocando il crollo dell’Urss, per qualche tempo la parata perse molto del suo fascino. Un po’ come il nostro 2 giugno “inclusivo” di qualche anno fa. Fu Vladimir Putin a restituire smalto alla manifestazione nel 2008, per mostrare al mondo che l’orgoglio russo non si era esaurito, né lo erano i suoi muscoli ed il suo spirito patriottico.

Era, invero, uno dei primi segnali sul tipo di strada che Putin aveva ormai deciso di percorrere. Ma nessuno, allora, sembrava preoccuparsene troppo, se non i soliti nordici, che avevano conosciuto il peso del calcagno sovietico. Eppure Putin, allora, stava giocando a carte scoperte. Ma nemmeno il comportamento delle truppe russe in Georgia e in Cecenia aveva dato un segnale di sveglia sufficiente ad un Occidente tutto compreso nella globalizzazione e nelle utopie di quei principii universali che “quasi” tutto il mondo approva a parole, ma che nessuno applica davvero. Nemmeno l’Onu, imprigionato nella gabbia dei veti e contro-veti che si era prefabbricato sin dall’inizio.

Putin continuava indisturbato a perseguire il suo piano di grandeur, mirando a riportare la Russia ai fasti ed alla rilevanza politica di prima, non avendo mai del tutto metabolizzato il crollo del regime. La parata del 9 maggio ritornava ad essere ogni anno più importante anche come strumento di pressione politica, con continui show di nuovi missili, carri armati e grandi masse di uomini che marciavano perfettamente inquadrati.

Le esercitazioni sul terreno, una dopo l’altra, davano segnali inequivocabili, che solo la Cia, il Regno Unito e i Paesi nordici della Nato seguivano con estrema attenzione. I fatti in Crimea e Dombass indicavano con chiarezza la direzione di marcia. Anche gli eventi in Siria ed il rinnovato interesse per l’Africa, allargato questa volta a Libia e Sahel, ormai parlavano da soli. Lo zar in pectore attendeva solo il momento favorevole per il grande balzo in avanti, che gli era sembrato ormai a portata di mano con la congiuntura della pandemia, l’elezione di un presidente americano che seguiva le orme della disastrosa politica di Barack Obama e l’improvvida accelerazione della svolta verde dell’Europa, che la rendeva fortemente dipendente in quanto a disponibilità di risorse energetiche.

Il resto è storia dei giorni nostri. Putin, con l’“operazione speciale” in Ucraina, ha tentato di fare un deciso passo in avanti, foriero di ulteriori “acquisizioni” tra i vecchi possedimenti antemurali. Ma aveva già sbagliato i conti, puntando sul nucleare tattico e trascurando la modernizzazione dell’esercito in termini di mezzi, logistica, addestramento e flessibilità dell’azione di comando. Ora gli sta andando male: non può allargare la Parata della Vittoria a nuove conquiste e, nella Piazza Rossa di Mosca, si è dovuto organizzare per mascherare perdite, sconfitte ed inutili distruzioni. Migliaia di giovani ragazzi di leva traditi non potranno mai più marciare, se non nella memoria dei loro cari, davanti all’orgoglio della folla e centinaia di blindati e corazzati bloccati per sempre tra le distruzioni di città e villaggi non potranno mai più sfilare. Ma Putin non è uomo da giustificarsi di fronte al popolo ed all’evidenza.

Ormai non può fermarsi, ma qualche cosa deve pur dire, e qualcos’altro dovrà anche fare. Freniamo l’impazienza perché (a meno di accordi segreti), tra un paio di giorni lo sapremo. E non sarà una bella notizia.


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