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L’ultima intervista di Aldo Moro in via Savoia

Quello che può essere considerato il resoconto dell’ultimo “colloquio” tra Moro e un giornalista viene pubblicato solo dopo la morte del politico democristiano su la Repubblica, col titolo: “L’ultimo messaggio politico”. Accade il 14 ottobre del 1978 ed Eugenio Scalfari, che firmò gli appunti di quella “intervista postuma”, lo intervistò a Via Savoia il 18 febbraio 1978, ventotto giorni prima del suo rapimento

Quando mi trovo a passare per via Savoia alzo lo sguardo verso le finestre al primo piano di quello che è stato lo studio privato di Aldo Moro a Roma.

Via Savoia è anche il titolo dell’ultimo romanzo di Marco Follini, pubblicato il mese scorso ed edito da La nave di Teseo, dedicato alla vita dello statista. Quante persone sono passate in quell’appartamento. Anche Eugenio Scalfari che intervistò il presidente della Dc. Quello che può essere considerato il resoconto dell’ultimo “colloquio” tra Moro e un giornalista viene pubblicato solo dopo la morte del politico democristiano su la Repubblica, col titolo: “L’ultimo messaggio politico”. Accade il 14 ottobre del 1978 ed Eugenio Scalfari, che firmò gli appunti di quella “intervista postuma” racconta: “L’avevo incontrato – scrive il fondatore del quotidiano romano che aveva la propria sede in piazza Indipendenza – dopo molti anni di polemiche, seguite allo scandalo del Sifar e del generale De Lorenzo, il 18 febbraio del 1978, esattamente ventotto giorni prima del rapimento di via Fani. L’incontro era avvenuto nel suo ufficio privato, in via Savoia. Conversammo per due ore e Moro mi autorizzò a prendere appunti di quanto mi diceva. ‘Le serviranno prima, o poi, ma non subito; interviste in questo momento non sono opportune’‚ disse”.

Rispetto al riferimento che l’allora direttore di Repubblica fa al Sifar e a De Lorenzo, occorre ricordare che nel marzo 1968 Scalfari, a quel tempo direttore de l’Espresso e il giornalista Lino Iannuzzi furono condannati rispettivamente a un anno e cinque mesi e un anno e quattro mesi di reclusione (più una pena pecuniaria) nel processo intentato contro di loro da De Lorenzo in seguito alle rivelazioni sul presunto golpe del luglio 1964 e che aveva visto implicato, nel successivo scandalo provocato dall’inchiesta del settimanale romano, anche l’allora Presidente della repubblica Antonio Segni.

Un anno prima, in aprile, De Lorenzo era stato destituito da capo di Stato maggiore dell’esercito. Il 10 marzo 1968 l’Espresso pubblicò “Lettera di un condannato”, scritta da Scalfari indirizzata a Moro, responsabile degli omissis con i quali egli aveva coperto i documenti richiesti dal collegio di difesa dei due giornalisti. In quest’articolo s’addossava a Moro la responsabilità di aver fatto condannare i due giornalisti: “È stato – scrisse Scalfari – uno dei più gravi peccati che lei abbia commesso nel corso del lungo periodo di governo che porta il suo nome. Nei passaggi trascritti da Scalfari, nel “pezzo” pubblicato solo nell’ottobre del 1978, compaiono i temi dominanti dell’intervento di Moro la sera del 28 febbraio a Roma, solo dopo dieci giorni da quell’incontro al civico 66 di via Savoia: la
considerazione sul ruolo del Pci, quella sui rapporti che esso aveva con la Dc, con le istituzioni; l’ipotesi sul possibile passaggio nella maggioranza che avrebbe sostenuto il quarto governo Andreotti; la riflessione sulla fase ancor più avanzata di responsabilità dirette ed, infine, “dopo la fase dell’emergenza, quella dell’alternanza”. Moro sottolinea all’allora direttore di Repubblica: “Non è affatto un bene che il mio partito sia il pilastro essenziale di sostegno della democrazia italiana. Noi governiamo da trent’anni questo Paese. Lo governiamo in stato di necessità, perché non c’è mai stata la possibilità reale di un ricambio che non sconvolgesse gli assetti istituzionali ed internazionali.

Quando noi parliamo di spirito di servizio‚ so bene che molti dei nostri avversari non ci prendono sul serio. Pensano che sia una scusa comoda per non cedere nemmeno un grammo del potere che abbiamo. So anche che per molti del mio partito questo stato di necessità è diventato un alibi alla pigrizia e qualche volta all’uso personale del potere.

Sono fenomeni gravi, ma marginali. Resta il fatto che la nostra democrazia è zoppa? No fino a quando lo stato di necessità durerà. Fino a quando la Democrazia cristiana sarà inchiodata al suo ruolo di unico partito di governo. Questo è il mio punto di partenza: dobbiamo operare in modo che ci siano alternative reali di governo alla Dc. Se non si è profondamente convinti di questa verità non si può capire il perché della mia politica di questi anni e di questi mesi”.

Moro individua l’interesse egoistico del suo partito premettendo che “se l’interesse egoistico c’è, quella è la garanzia di miglior sincerità”. Il presidente del consiglio nazionale dello scudo crociato si domanda e subito riflette rispondendosi: “E qual è l’interesse ‘egoistico’ della Dc a non essere più il pilastro essenziale di sostegno della democrazia italiana? Io lo vedo con chiarezza. Se continua così, questa società si sfascia, le tensioni sociali, non risolte politicamente, prendono la strada della rivolta anarchica, della disgregazione. Se questo avviene, noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del paese. E affonderemo con esso. Ecco l’interesse ‘egoistico’ della Dc. Perciò ho il dovere di essere creduto se affermo che noi vogliamo preparare alternative reali alla Dc”.

Lo schema del ragionamento è proprio lo stesso con cui convincerà i democristiani riottosi dieci giorni dopo. I parlamentari che nicchiavano rispetto all’ingresso del Pci nella maggioranza che avrebbe sostenuto il
nuovo governo, quelli che concretizzavano la loro opposizione firmando il documento presentato da Carlo Donat Cattin e fatto circolare dal suo fidato parlamentare Vito Napoli, verranno quasi presi per mano dalle
argomentazioni morotee e condotti sul terreno dell’unità con le stesse criticità, con le stesse paure, con le stesse motivazioni che avrebbero voluto usare contro la strategia di Moro per stopparlo. Moro esorcizza i dubbi e dimostra che la Dc non può e non deve avere titubanze.

Sul Partito comunista l’intervistato è lapidario: “No, non credo che il Pci sia già un partito con tutte le carte in regola per governare da solo. Data la situazione internazionale non lo sarà ancora per un pezzo. Ma il Pci può fin d’ora essere associato al governo insieme a noi e alle altre forze democratiche. Questo è possibile. Questo è anzi necessario. Noi non siamo più in grado di tenere da soli un paese in queste condizioni. Occorre una grande solidarietà nazionale. So che Berlinguer pensa e dice che in questa fase della vita italiana è impossibile che una delle due maggiori forze politiche stia all’opposizione. Su questo punto il mio ed il suo pensiero sono assolutamente identici. Aggiungo: è impossibile anche che i socialisti stiano all’opposizione. Sono tre partiti legati alla stessa catena”.

Moro delinea a Scalfari quello che potrebbe essere il prossimo scenario politico: “La Dc marcerà sull’ingresso del Pci nella maggioranza subito. Ma poi credo che ci debba essere una seconda fase, non troppo in là, con l’ingresso nel Pci nel governo. So benissimo che sarà un momento ‘stretto’ da superare. Bisognerà superarlo”.

Poi, il riferimento alla terza fase: “Soltanto dopo che avremo governato insieme e ciascuno avrà dato al Paese le prove della propria responsabilità e della propria capacità, si potrà aprire la terza fase, quella delle alternanze al governo”. Nel finale del colloquio col direttore di Repubblica Moro si dichiara “assolutamente contrario” al progetto di compromesso storico sostenuto dal Pci, perché “la società consociativa non è un modello accettabile per un paese come il nostro”.

Scrive Scalfari dieci anni dopo quell’incontro: “Passarono molti mesi e ci furono di mezzo i 55 giorni di orribile prigionia nel ‘carcere del popolo’ e infine l’assassinio. Soltanto il 14 ottobre del 1978 mi decisi a pubblicare su Repubblica, sotto forma di intervista postuma, il colloquio che oggettivamente era stato l’ultimo prima della catastrofe, nel quale il leader della Dc aveva spiegato senza veli e riserve il suo pensiero e il suo disegno politico”.

Scalfari ha fatto ripubblicare l’intervista il 16 marzo 1988 sul suo quotidiano, in apertura di un inserto di quattro pagine titolato “Moro dieci anni dopo”, perché “moltissimi dei nostri attuali lettori non la conoscono; molti altri l’hanno probabilmente dimenticata”.

Al termine di quell’incontro del 18 febbraio ’78, Moro congedando Scalfari, gli spiegò i motivi per i quali aveva scelto di porre, dieci anni prima, degli omissis sui documenti indispensabili per la difesa di Iannuzzi e Scalfari stesso, violando un principio costituzionale definito nel marzo del 1968 dall’articolo su l’Espresso, già citato in questo paragrafo, “sacro per chi crede nella democrazia”. Moro rispose di aver optato, in quanto presidente del Consiglio, per un diverso principio: quello della tutela dello Stato, anche con il segreto, quando ciò fosse indispensabile alla sua sicurezza.

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