Ora che possiamo utilizzare le risorse del Pnrr, anzi ora che dobbiamo utilizzarle, è necessario farlo con un modo di vedere le cose del tutto coerente, sebbene quasi inedito, perché sinora non richiesto o non possibile, se si volge lo sguardo agli ultimi vent’anni almeno. Se non ci riusciremo, ogni migliore intenzione e ogni miglior sforzo si rivelerà vano. L’analisi di Massimiliano Atelli, presidente Commissione Via-Vas
Risparmiare, inteso come non spendere tout court o, in alternativa, come ridurre la spesa senza scegliere (tagli lineari). Oppure, all’opposto, spendere, ma bene. È di fronte a questo bivio che si trova, oggi, il Paese, in materia di scelte pubbliche in genere, e di spesa pubblica in particolare. E ci si trova scontando, già in partenza, due difficoltà: per prima cosa, non è mentalmente abituato a spendere (o meglio a poter, se non anche a dover, spendere); in secondo luogo, non è attrezzato per spendere bene.
Nel tornante della Storia segnato dalla stimmate del Pnrr, la prima grande novità per il sistema pubblico è il poter (anzi, il dover) spendere. E avere da spendere. La seconda, è il doverlo fare non nella logica minore di tipo adempimentale (veteroburocratica), bensì secondo la nuova cultura – legata al paradigma della spesa per investimenti – dell’effettivamente realizzato e della corrispondenza tra l’effettivamente realizzato e il programmato (sul piano degli effetti concreti) sin dal principio.
Sulla carta, per il diritto interno era, in apparenza, già così. La differenza, tuttavia, sta nelle regole di ingaggio fissate per il Next Generation Eu, in base alle quali non sarà più sufficiente dimostrare di aver raggiunto nei tempi una delle tappe intermedie del percorso, ma occorrerà, piuttosto, guardare al risultato finale, per capire se quanto di tangibile è stato effettivamente realizzato “funziona”, consente cioè di produrre gli effetti (di modernizzazione, su climate change, giustizia, inclusione, etc.) attesi. In mancanza, i fondi utilizzati andranno restituiti, in quanto erogati in forma di prestito a tasso agevolato per una quota pari a ben i 2/3 dei 222 mld complessivamente a disposizione dell’Italia.
Una sfida forte per un Paese, come il nostro, che, come noto, pur essendo tra i maggiori contributori dell’Unione, è saldamente agli ultimi posti tra gli utilizzatori dei fondi che la stessa Unione rimette a disposizione degli Stati membri. Dove il tema non è una utilizzazione poco o per nulla proficua, ma, piuttosto, l’inutilizzazione tout court.
Spendere bene significa, essenzialmente, investire. E per vero solo investimenti azzeccati che danno i frutti attentamente programmati possono consentire al Paese di invertire la rotta anche sul fronte di un indebitamento nazionale che ha ormai raggiunto livelli tali da farne una zavorra formidabile per tutto il sistema Italia. Perché la ricetta migliore per una efficace controazione sul sovraindebitamento è un buon investimento (cioè spendere bene). Non è non spendere, o ridurre senza scegliere (tagli lineari).
La ricerca di buoni investimenti non sarà però da sola sufficiente, se gli apparati tecnocratici del settore pubblico non muteranno fortemente prospettiva facendo propria, in profondità, una cultura che antepone il risultato utile effettivamente realizzato (e misurabile) all’idea che la miglior ricetta, anche per uscire dalla trappola del sovraindebitamento, sia non spendere o ridurre senza scegliere.
Ora che possiamo utilizzare le risorse del Pnrr, anzi ora che dobbiamo utilizzarle, è necessario farlo con un modo di vedere le cose del tutto coerente (sebbene quasi inedito, perché sinora non richiesto o non possibile, se si volge lo sguardo agli ultimi vent’anni almeno). Se non ci riusciremo, ogni migliore intenzione e ogni miglior sforzo si rivelerà vano.
Accanto a questo incisivo e impegnativo cambio di mentalità, nell’epocale stagione che stiamo attraversando il Paese deve fronteggiare tuttavia una ulteriore difficoltà: non essendo abituato a poter spendere (per investire), non è ben attrezzato allo scopo. E si vede.
Ricette che (rispetto al sovraindebitamento) sanno di scorciatoia, quale il prolungato e rigido blocco del turnover nella pubblica amministrazione, non soltanto hanno fortemente sguarnito (seppur in proporzioni diverse, fra apparato centrale e apparato territoriale) tutte le amministrazioni oggi chiamate ad uno sforzo eccezionale, ma hanno conseguentemente inciso anche sulle aspettative occupazionali e, di riflesso, sulla scelta dei percorsi formativi, specie in ambito tecnico.
Per l’effetto, solo per fare qualche minima esemplificazione, concorsi indetti con procedure accelerate finalizzate a consentire il rapido reclutamento di circa 2800 unità indispensabili alla PA nel Mezzogiorno hanno incontrato concrete difficoltà (in prima battuta, solo 800 assunti), cui si aggiunge una forte carenza numerica delle professionalità tecniche necessarie per la realizzazione e il controllo dei tanti interventi che devono tradursi in opere tangibili sia nel campo delle infrastrutture quanto nel campo dell’energia (nel solo Centro Nord, il saldo negativo fra numero degli ingegneri elettrici necessari e numero dei corrispondenti nuovi laureati è stimato in circa 1900 unità su 2500), e, ancora, previsione della realizzazione di decine di nuove strutture sanitarie pubbliche per il cui funzionamento saranno necessarie legioni di infermieri (le stime parlano di circa 70mila unità), che non ci sono, e che anzi si andranno riducendo (perché, come in ogni dinamica, il mancato ricambio del personale non si sviluppa a fattori per il resto invariati: mentre chi va in pensione non viene sostituito, l’età di chi resta cresce).
A questo va aggiunto non soltanto un permanere di divari (al plurale) fra Nord e Sud che offre indicazioni, in bianco e in nero, sul perché i giovani del Sud manifestino un’alta propensione a rinunciare a lavori nel settore pubblico al Nord, ma anche una dinamica salariale la cui crescita ha, anche nel settore pubblico, tempi e volumi comunque lontani da quelli dell’incremento del costo della vita (esposto per giunta a impennate nel caso di crisi internazionali in aree regionali cruciali perché, ad esempio, ricche di risorse energetiche e/o di materie prime).
Vi è perciò assoluta necessità di tornare ad affrontare nodi di fondo, in questo ambito, anche attraverso un dibattito pubblico forte e laico. Perché senza un apparato pubblico permeato da una mentalità nuova e adeguatamente attrezzato per affrontare queste sfide, non si andrà lontano. Si rischia solo di coltivare l’illusione di poter stare nel “mondo nuovo”, imposto (piaccia o non piaccia) dalla forza delle cose (di cose che travalicano, più spesso, persino la volontà di entità sovrane), con un semplice maquillage al “mondo di prima”.