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Quale direzione per la Difesa europea? Risponde Nones

L’Unione europea ha preso atto della necessità di accelerare sulla difesa comune, un’urgenza resa ancora più indispensabile dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Per far fronte ai gap nelle proprie capacità militari, la Commissione e l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza hanno messo in campo nuovi strumenti, ma saranno sufficienti? E quali possono essere i rischi e le sfide per l’Italia e l’Europa? Ad Airpress prova a rispondere il vice presidente dello Iai, Michele Nones

L’Unione europea vuole intensificare i propri sforzi per la costituzione di una capacità di difesa più efficace. A Bruxelles, i ministri della Difesa dei Paesi membri hanno stabilito la creazione di un hub per accelerare la cooperazione per l’innovazione nel settore militare, mentre la Commissione europea e l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza hanno presentato una Comunicazione congiunta che analizza le carenze nelle capacità militari del Vecchio continente, proponendo alcune contromisure. L’obiettivo è quello di spingere i Paesi a spendere insieme, in particolare sul procurement e attraverso un sostegno alla base industriale europea. Ad Airpress, il vice presidente dell’Istituto affari internazionali, Michele Nones, fa il punto sugli obiettivi e le sfide che attendono il processo di costruzione della Difesa europea.

L’Ue sembra accelerare sulla Difesa comune, con la creazione dell’Hub per l’innovazione e le previsioni di spesa. Tuttavia, non si sta cercando di fare ora, tutto insieme, quello che non si è fatto in vent’anni, con il rischio di incappare in errori e sviste?

L’Unione europea ha cominciato ad accelerare il processo di rafforzamento delle proprie capacità militari dopo l’uscita dall’Afghanistan, quando è diventato evidente che le forze armate dei Paesi membri non sarebbero state in grado di uscire, in condizioni di sicurezza, da quel teatro senza l’intervento diretto americano. Con l’invasione russa dell’Ucraina, poi, l’Unione ha preso atto di essere impreparata a un simile scenario. La repentina accelerazione, dunque, non è dipesa dall’Europa, che si è trovata a gestire una crisi epocale non avendo il tempo necessario per predisporre con maggiore serenità eventuali contromisure. E, per definizione, gli interventi straordinari sono più soggetti al rischio di commettere errori, dal momento che non c’è tempo per effettuare le opportune verifiche. Tuttavia, ci si è resi conto di tre cose: primo, che la guerra tradizionale è tornata in Europa; secondo, che con le giuste capacità un Paese può essere messo in condizione di resistere a una invasione; e terzo, che oggi come non mai viene confermato il motto latino: “Si vis pacem, para bellum” perché solo una credibile deterrenza può contenere eventuali minacce. Una politica di apertura e cooperazione non è, da sola, sufficiente a garantire la sicurezza e la difesa. Tutto questo ha fatto prendere piena cognizione ai vertici politici degli Stati europei della forte carenza nelle capacità militari del continente e, al contempo, della loro necessità.

In questo scenario, è arrivato la Comunicazione congiunta della Commissione europea e dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza. Come giudica complessivamente il documento?

Il testo in sé è a mio avviso positivo, considerando la tempistica con cui è stato predisposto. La prima novità concreta riguarda il fatto di essere un testo congiunto preparato dalla Commissione, quindi la struttura comunitaria dell’Ue, e dall’Alto rappresentate per la politica estera e di sicurezza, che è il vertice di tutta quella componente intergovernativa che raccoglie sotto di sé l’Agenzia europea della Difesa (Eda) e il servizio esterno dell’Ue. Ha richiesto sicuramente un coordinamento difficile, ma mettere insieme due visioni così diverse, una più concentrata sul lato comune, l’altra sui diversi punti di vista degli Stati membri, può già essere considerato un buon risultato.

E per quanto riguarda i contenuti?

Sicuramente, quanto espresso dal documento nella sua prima parte di analisi delle lacune è molto preoccupante. Al di là delle tre urgenze individuate (rifornimento scorte utilizzate per sostenere l’Ucraina, sostituzione materiale ex-sovietico e acquisizione di capacità di difesa aerea e missilistica), c’è una lunga lista di capability gap che vanno dai carri armati, ai droni, fino alle navi. È chiaro, poi, che oltre alla necessità di soddisfare le proprie esigenze capacitive, l’Europa dovrà affrontare anche il salto tecnologico generazionale dei sistemi attuali. Altra annotazione importante che emerge è quella sulle spese: spendiamo quattro volte quanto Russia e Cina, ma li spendiamo in maniera inefficiente. Il tema del procurement è stato fin qui lasciato nelle mani degli Stati nazionali. Aggiungerei inevitabilmente, dal momento che per mettere d’accordo i vari Paesi su cosa avrebbe dovuto essere comprato, prima si sarebbe dovuto decidere cosa si intendeva fare insieme, presupponendo dunque la creazione di una politica di difesa e l’organizzazione delle Forze armate in modo comune, con queste ultime dotate, quantomeno, di equipaggiamenti analoghi e in grado di operare insieme. Questo, però, è un processo che deve partire dai vertici, dalla decisione di condividere parte della politica internazionale e delle proprie capacità di difesa, che a quel punto devono essere mantenute efficienti attraverso programmi che siano davvero europei.

In che senso “davvero europei”?

Troppo spesso si usa il termine “europeo” per coprire programmi che europei non sono, tuttalpiù sono programmi bi o trilaterali tra Paesi. Per essere europeo, un progetto deve prima di tutto rispondere ad una esigenza comune. Lo sviluppo di un prodotto deve poi corrispondere a un requisito condiviso. Su questo, ritengo che dovrebbe esserci una “certificazione” di tale “europeità” effettuata da un’agenzia dell’Ue, come ad esempio l’Agenzia di difesa europea (Eda).

Di fronte a queste emergenze, il documento interviene con due misure: la Task force per il procurement congiunto di difesa e i Consorzi europei per le capacità di difesa. Sono strumenti sufficienti?

Naturalmente quanto adottato non potrà essere qualcosa di vincolante, non sarà un ministero della Difesa europeo. Partendo dalla Task force, l’elemento importante è che si cerca di evitare che i Paesi, di fronte alle esigenze immediate, vadano in ordine sparso, mentre, invece, bisognerà cercare di coordinarli nell’ottenimento delle forniture necessarie, salvaguardando la loro partecipazione all’utilizzo dei prodotti europei in via di sviluppo Il secondo strumento, quello dei Consorzi, rappresenta sicuramente una soluzione più rapida rispetto alla modifica (necessaria) di tutta una serie di normative europee attualmente in vigore. La Commissione ha preferito intanto garantire determinate agevolazioni a quegli Stati che decidono di consorziarsi, a partire dall’esenzione dell’Iva, una scelta non di poco conto, se si considera che si riferisce al 20% del costo complessivo. Personalmente avrei preferito una modifica in tempi rapidi delle normative in modo da garantire questa esenzione a tutti i programmi europei, ma l’importante è raggiungere l’obiettivo in tempi brevi.

Ci spieghi meglio…

Attualmente sono in vigore due direttive che regolamentano il mercato della difesa che andrebbero modificate per agevolare la cooperazione europea. La prima è la 2009/81, che stabilisce le regole per gli acquisti di materiale d’armamento. Allo stato attuale, questa norma non consente di scegliere prodotti sviluppati in Europa senza effettuare una gara. Bisognerebbe, invece, stabilire che quando si tratta di programmi europei, non c’è bisogno di preoccuparsi della competitività. Il secondo pacchetto di norme prevede, ancora oggi, che i programmi di cooperazione industriale della difesa siano soggetti al controllo delle esportazioni anche tra Paesi europei. Un aggravio inaccettabile in termini di costi e burocrazia. È necessario cominciare a ragionare sul fatto che il mercato europeo per la difesa debba essere trattato come uno spazio unico. Le imprese che si organizzano per portare avanti un programma comune devono essere messe nelle condizioni di muovere tutto il materiale e la tecnologia dove ne hanno necessità. Per fare un esempio banale, se un’azienda italiana ha necessità di spostare un prodotto dalla Sicilia al Piemonte, non ha bisogno certo dell’autorizzazione e così deve avvenire per l’Unione Europea.

Di fronte a questa accelerazione repentina, quali potrebbero essere le sfide per il nostro Paese?

Partendo dal presupposto che qualunque rafforzamento dell’Unione è positivo anche per gli Stati membri, la vera sfida per l’Italia è che questo processo, che adesso sta acquisendo velocità, rischia di lasciare il nostro Paese ai margini, venendo trascinato dal processo, ma senza fare parte del gruppo di punta. Per essere tra i Paesi-guida, però, non è sufficiente né il peso economico, né una leadership politica affidabile e credibile, ma serve anche un sistema complessivo in grado di mettere in atto le decisioni prese, ed eventualmente accelerare la propria capacità di reazione. Dobbiamo, come Italia, avere il coraggio di partecipare a questa integrazione europea assumendoci delle responsabilità, e io credo che un Paese come il nostro possa benissimo permetterselo. Servirà però un grande lavoro di squadra e forza di volontà. Speriamo di poterlo fare anche in una condizione di relativa stabilità del quadro politico italiano.

E dal punto di vista settore industriale?

Le iniziative previste dalla pubblicazione della Commissione potranno essere positive anche per l’industria italiana, a condizione che queste potenzialità vengano sfruttate adeguatamente. Sicuramente molta attenzione è stata posta all’esigenza di rifornire i Paesi dell’Europa orientale, consumate per fornire assistenza all’Ucraina tramite la cessione di materiale ex-sovietico, più familiare ai militari ucraini. Questo, però, ha fatto sì che solo alcuni Paesi adesso hanno l’urgenza di ricostituire rapidamente i propri equipaggiamenti, anzi di aumentarli, visto la minaccia più consistente. Bisognerà fare attenzione a che, alla fine di questo processo, non si abbia addirittura un’Europa più divisa perché si sono immessi in servizio equipaggiamenti diversi tra loro. Questo vale anche per le industrie, naturalmente, che dovranno conciliare le esigenze immediate di risposta alla domanda, con la strategia di medio periodo che le continui a vedere impegnate nello sviluppo di nuove generazioni di sistemi d’arma, comuni a tutte le Forze armate europee.



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