Fu il più efficace interprete di una spietata critica fattuale, non solo teorica, alla borghesia e in particolare ai sedicenti socialisti che imborghesitisi a loro volta si dimostrarono i peggiori e più implacabili nemici del proletariato. Gennaro Malgieri ricorda la figura del sindacalista rivoluzionario a cui è stato dedicato il volume “Filippo Corridoni. La vita e le idee dell’arcangelo sindacalista” (Passaggio al Bosco) di Vincenzo d’Orio e Luca Lezzi
Tra le grandi scuole del pensiero politico del Novecento, indubbiamente il sindacalismo rivoluzionario può essere considerato il movimento politico-culturale più fecondo, ma anche il più trascurato sotto il profilo degli studi e delle interpretazioni che di esso sono state date, come ha dimostrato la recente pubblicazione antologica di Renato Melis Lavoro e nazione: sindacalisti italiani (Oaks edizioni) che ha colmato in parte la lacuna. Se si eccettua, infatti, una ristretta cerchia di studiosi che ad esso si sono dedicati, non ha avuto grande fortuna neppure presso il pubblico cosiddetto “colto”. Singolare “distrazione” se si considera che da esso ebbe origine in parte il fascismo, in parte l’anarco-sindacalismo e perfino una cospicua componente del Partito comunista la si può imputare al suo marxismo per quanto rivisto e corretto.
L’oggettiva vicinanza, divenuta poi sostanziale convergenza, con il nazionalismo di Enrico Corradini rese il sindacalismo rivoluzionario una specie di ircocervo, tanto che alcuni dei suoi esponenti passarono tra le “camicie azzurre” senza rinnegare le origini rivoluzionarie e “sovversive”. L’influenza del sindacalismo – che ebbe in Georges Sorel (del quale sempre le edizioni Oaks hanno appena pubblicato il capolavoro di Pierre Andreu, Sorel il nostro Maestro), il massimo teorico europeo e in Italia con Filippo Corridoni il suo eroe (cadde ventottenne nel 1915 in battaglia sul Carso, dopo essere stato un attraente agitatore ed un organizzatore brillante) – è innegabile riscontrarla nel dannunzianesimo fiumano: la Carta del Carnaro, prima Costituzione del Novecento, fu infatti redatta da Alceste De Ambris, capofila di quella “banda” di eretici del socialismo.
Va rilevato, nell’occuparci di Corridoni e del sindacalismo, che il mito di Sorel, coltivato dal rivoluzionario di Pausula (poi Corridonia) che dobbiamo a Benedetto Croce l’introduzione in Italia del pensiero e dell’opera dell’intellettuale francese. Per quanto distante sul piano teorico e della prassi politica dall’ideologo, il filosofo italiano ne colse la “vicinanza” sia per quanto concerneva la sua critica al marxismo che per la dirittura morale esemplificata in una vita concentrata nello studio e nella comprensione della modernità – diremmo oggi – senza lasciarsi trascinare dalle mode e dalle utopie in voga all’epoca. Sicché l’opera maggiore di Sorel, le Réflexions sur la violence (1906), grazie a Croce potè apparire in Italia e influenzare decisamente gli insofferenti del marxismo scolastico, a cominciare dai sindacalisti rivoluzionari dei quali divenne il “mito” assoluto, mentre anche Lenin e Mussolini si abbeveravano alla sua dottrina.
Sorel riconosceva che mentre per Marx il socialismo era “una filosofia della storia delle istituzioni contemporanee”, a lui appariva come “una filosofia morale” e “una metafisica dei costumi”, ma anche “un’opera grave, temibile, eroica, il più alto ideale morale che l’uomo abbia mai concepito, una causa che si identifica con la rigenerazione del mondo”. I socialisti, dunque, non avrebbero dovuto formulare teorie, costruire utopie più o meno attraenti, poiché “la loro unica funzione consiste nell’occuparsi del proletariato per spiegare ad esso la grandezza dell’azione rivoluzionaria che gli compete”.
Adesso appare un volume a “due volti” su Filippo Corridoni che ci restituisce il grande sindacalista in due aspetti connessi al tempo in cui i saggi sono stati scritti. Il primo è di Vincenzo d’Orio del 1934; il secondo è del giovane e brillante studioso Luca Lezzi, scritto quest’anno.
Filippo Corridoni. La vita e le idee dell’arcangelo sindacalista (edito da Passaggio al Bosco, pp. 203, € 15) è un libro la cui singolarità non è soltanto dovuta alle epoche diverse nelle quali è stato scritto, ma alle analisi, perlopiù coincidenti nell’essenza, ma diverse nell’approccio che ne fanno un libro assai vivace e ricco di spunti di riflessione a cominciare dall’aspetto eroico messo in luce dal primo e da quello “moderno” del secondo in cui Lezzi “legge” Corridoni come se fosse un nostro contemporaneo.
Un modo originale e intelligente da parte dell’editore di riportare all’attenzione il personaggio, per evidenziarne l’attualità nel suo tempo e ricordare ai posteri come e quanto fu complessa la vicenda del sindacalismo rivoluzionario soprattutto in rapporto con il conflitto mondiale.
Tanto come combattente che come teorico e agitatore, Corridoni, sottolineano gli autori, fu un simbolo appassionato e romantico che cercò, riuscendovi, di colmare il divario che c’era, animato da socialisti e liberali, tra la classe e la nazione. “La nuova Italia – scrive Lezzi – pensata dai rivoluzionari sarebbe dovuta essere una Nazione economicamente liberista, socialmente industriale operaia, politicamente repubblicana federalista e tendenzialmente libertaria sindacalista con un nazionalismo di stampo sindacalista, comunali sti o è federativo. Se il progetto di nuovo Stato ideato dai sindacalisti rivoluzionari non ebbe mai luogo, lo si deve principalmente a due fattori: la Grande Guerra a cui essi parteciparono in massa da volontari vide molti di loro non fare ritorno a casa accentuando il secondo aspetto dato dalla dispersione dei superstiti”.
Filippo Corridoni è stato considerato in molti modi nel corso dei cento anni seguiti alla sua morte. E questo si evince dal saggio di d’Orio e Lezzi. Una vasta letteratura ce lo consegna nei modi più disparati: tutti sono plausibili e qualsivoglia interpretazione del suo breve eppure intenso percorso è legittima. Mettendo insieme il tutto, al di là delle passioni ideologiche e delle strumentalizzazioni di parte non meno che delle demonizzazioni postume, non si corre il rischio di appropriarsene indebitamente giudicandolo un antesignano del bellicismo proletario come necessità rivoluzionaria.
Insomma, egli fu un convinto sostenitore dell’impegno italiano nella Prima Guerra Mondiale non perché ritenesse le ragioni degli interventisti borghesi fondate, a cominciare dalla retorica sul “completamento del Risorgimento”, ma per l’opposta ragione. Vale a dire far diventare, con la partecipazione al conflitto il proletariato per renderlo soggetto di primo piano nella vicenda nazionale e, dunque, decidere del destino della più vasta comunità alla quale apparteneva che con il processo di unificazione aveva avuto ben poco a che fare. L’etica corridoniana in questo senso si sposa con l’estetica rivoluzionaria a cui egli stesso ha dato un notevole impulso attratto dal sorelismo non meno che da un marxismo rivisitato, depurato dalla componente internazionalista e ripulito dal materialismo secondo l’esperimento non meno “scientifico” proposto da Lassalle, Bernstein, Lagardelle e poi da Arturo Labriola e da Enrico Leone. Un’estetica che nell’azione diretta avrebbe avuto la sua esplicitazione formale più evidente e da essa avrebbe tratto ispirazione un’intera generazione per trarsi dall’impaccio di un rivoluzionarismo datato e sterile, invecchiato nell’esaltazione retorica della Comune di Parigi e dei moti del Quarantotto.
In altri termini, con Corridoni – ma si potrebbe dire con la dottrina della violenza di Sorel ancor prima – fa irruzione nello smantellamento della pratica marxista il decisionismo individualista che cerca di contagiare le classi per farle assumere la responsabilità della partecipazione alla guida della nazione. In tal senso l’etica e l’estetica rivoluzionaria, come si vedrà dalle note che seguono, si tengono nella figura di Corridoni caratterizzandola tra tutte le figure rivoluzionarie dell’epoca, perfino quelle più prestigiose come Benito Mussolini, per una sua peculiarità assimilabile in un diversissimo contesto ai rivoluzionari tedeschi che nello stesso torno di tempo, rifiutato il marxismo come ispirazione, riescono a mettere insieme l’elemento völkisch con quello più propriamente sociale e nazionale.
Corridoni fu il simbolo delle inquietudini che nel primo Novecento scuotevano, non diversamente dalla Germania, l’Italia la cui formazione statuale era per certi versi simile a quella della nazione tedesca. In entrambe la questione sociale e quella nazionale s’intrecciavano e, per di più, sollevazioni popolari contro il potere costituito, contro la borghesia capitalista che lo sosteneva, non erano tanto dissimili. In un contesto di totale indecisione, nel caotico svolgersi della vita politica, nel disagio provocato soprattutto nelle classi meno abbienti dal trasformismo parlamentare (il riformismo socialista ne era uno degli esempi più eloquenti), Corridoni, ma non solo lui, com’è noto, riassumeva nella sua militanza rivoluzionaria un “sentimento” di rinascita, per quanto confusa, di una società prigioniera in parte di una cultura politica tendente a sviluppare un senso di irreggimentazione del pensiero e delle libertà individuali, in una logica oggettivamente di sopraffazione quale ideologia della meccanizzazione del lavoro e dell’appropriazione delle esistenze dei lavoratori stessi.
Il benessere materiale come conquista di una borghesia incapace di guardare oltre il proprio meschino orizzonte – cui si opponevano giovani intellettuali come Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Giovanni Boine, Scipio Slataper, oltre a Enrico Corradini, ai numerosi “figli” di Alfredo Oriani, e al trionfante Gabriele D’Annunzio – tendeva a corrompere un proletariato sempre più attratto da quella standardizzazione di vita che la classe dominante gli proponeva.
Corridoni fu il più efficace interprete, come fanno intendere d’Orio e Lezzi, di una spietata critica fattuale e non solo teorica alla borghesia e in particolare ai sedicenti socialisti che imborghesitisi a loro volta si dimostrarono i peggiori e più implacabili nemici del proletariato.