Quanto accaduto a partire dal 24 febbraio ha confermato che i dati e le informazioni su una imminente guerra erano del tutto fondati. Dall’altro lato, le analisi di carattere politico-strategico e geopolitico prodotte in gran quantità da studiosi, accademici e commentatori, si trovarono in larga misura concordi nell’offrire un quadro diametralmente opposto della crisi. L’intervento di Luciano Bozzo, professore di Relazioni internazionali e studi strategici dell’università di Firenze
A tre mesi dall’inizio della guerra in Ucraina c’è un aspetto non ancora sufficientemente esaminato della crisi sfociata nel conflitto armato. Aspetto che pure emerge con evidenza, guardando alle analisi dello scenario politico-militare prodotte nelle settimane precedenti la guerra.
Assistemmo allora, infatti, al manifestarsi di un duplice paradosso. Da un lato, furono rese note a più riprese spesso dettagliate informazioni d’intelligence, in particolare di fonte statunitense e britannica, che mettevano in guardia rispetto al prossimo inizio della guerra, che tuttavia non furono ritenute veritiere dal grande pubblico e non solo.
Eppure, quanto accaduto a partire dal 24 febbraio ha confermato che quei dati e quelle informazioni erano del tutto fondati, pienamente attendibili. Dall’altro lato, le analisi di carattere politico-strategico e geopolitico prodotte in gran quantità da studiosi e “strateghi laici”, accademici e commentatori, si trovarono in larga misura concordi nell’offrire un quadro diametralmente opposto della crisi, disegnandone un’evoluzione futura risultata in seguito del tutto erronea.
Il fenomeno si è manifestato un po’ ovunque nei Paesi occidentali, ma ha assunto una forma persino estrema in Italia. Nel nostro Paese il coro è rimasto pressoché unanime letteralmente fino alla vigilia dell’attacco russo, valutando impossibile una guerra che, invece, stava rapidamente avvicinandosi. In sintesi, informazioni d’intelligence dimostratesi vere sono state ritenute false, laddove ricostruzioni e analisi che hanno ottenuto la più ampia diffusione e grande credibilità si sono poi rivelate del tutto erronee.
Un doppio paradosso, dunque. Sul primo potremmo osservare che a fianco del vasto filone di letteratura dedicato ai fallimenti dell’intelligence, divenuto molto popolare dopo l’11 settembre, esiste da sempre quello forse altrettanto ampio sugli “inutili successi” della medesima.
La storia è ricca di questo genere di fallimenti e molte sono le spiegazioni offerte. Una la sintetizzò da par suo il Machiavelli al cap. XXV del Principe: “Avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere partirsi da quella”. Spesso, di fronte alle consolidate convinzioni dei decisori, politici o militari che siano, nulla può anche l’evidenza dei fatti. La realtà è sempre percepita, attraverso biases e condizionamenti psicologici e culturali del più vario genere.
Una seconda ragione di quanto accaduto è indubbiamente da individuare nella diffidenza, di matrice politico-ideologica, ma anche frutto di certa esperienza storica, che parte dell’opinione pubblica nutre sin dagli anni della guerra fredda nei confronti delle agenzie d’intelligence anglosassoni, in particolare quelle statunitensi. Altrettanto rilevante appare l’effetto prodotto dal ricordo delle informazioni di fonte intelligence presentate il 2 febbraio 2003 al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dal Segretario di Stato americano Colin Powell. Quelle presunte prove della presenza di armi chimiche e batteriologiche negli arsenali di Saddam Hussein, utilizzate per giustificare la guerra che sarebbe iniziata da lì a poco, come noto si rivelarono in seguito false. Ne seguì uno scandalo internazionale di enormi proporzioni, la cui risonanza mediatica è giunta sino ad oggi.
Malauguratamente le foto satellitari diffuse per mostrare la concentrazione delle forze russe ai confini dell’Ucraina per certi versi ricordavano quelle di istallazioni, camion e lanciatori iracheni mostrate da Colin Powell al Consiglio di Sicurezza e ad esse sono state anche paragonate. Se queste sono le ragioni, o alcune di esse, del primo dei due paradossi sopra evidenziati non meno interessante è interrogarsi sulle ragioni del secondo, e in particolare su una di esse.
Tra coloro che furono i più convinti sostenitori dell’impossibilità dell’aggressione russa all’Ucraina sono da annoverare, in Italia e fuori, qualificati esperti d’area e alcuni degli intellettuali, analisti e accademici che più e meglio conoscono società, storia, cultura, lingua e tradizioni russe o ucraine. L’esperto d’area è uno studioso o studiosa che di solito trascorre la propria intera vita professionale tentando di fare suo il massimo di conoscenze su un Paese o una data regione geografica.
Quando non abbia già legami con quell’area, a iniziare da quelli familiari, s’impadronisce di una o più lingue, studia la società, la storia e la cultura locali, gli usi e costumi delle popolazioni. Spesso si trasferisce e vive a lungo in loco, stringendo rapporti professionali, personali, d’amicizia e finanche sentimentali e familiari. Tutto questo gli darà certamente la possibilità di comprendere molto meglio di chiunque altro il Paese o regione oggetto del suo interesse di analista, gli consentirà di sviluppare una particolare empatia nei confronti di quelle società, persino di sentirsene accolto e farne in qualche modo parte.
Qui sta tuttavia un paradosso del lavoro di intelligence. La conoscenza di un Paese, la partecipazione alla vita di un popolo, la comprensione della sua storia e l’empatia nei confronti di una cultura sono essenziali ai fini dell’analisi, della conoscenza d’area. Questa “compenetrazione” comporta tuttavia la nascita e lo sviluppo di un comprensibile pregiudizio positivo. In tal senso, l’esperto d’area rischia di rinunciare non solo alla visione d’insieme, i condizionamenti derivanti dal sistema delle relazioni internazionali, ma anche di far proprie, consapevolmente o meno, le altrui immagini del mondo e della storia. Per non parlare dell’ipotesi estrema e peggiore. Evidentemente il paradosso non ha facile soluzione. Vale comunque la pena di averne almeno consapevolezza, in vista delle crisi future.