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La valigetta di Draghi a Washington. Parla Caracciolo

Il direttore di Limes: a Washington per Draghi una missione europea, fondamentale capire le linee rosse di Biden. Il premier asse portante delle sanzioni economiche, sul gas servirà realpolitik. Putin? Il Donbas è un’enorme grana per Mosca

Cosa dovrà portare il presidente del Consiglio Mario Draghi nello Studio Ovale quando incontrerà Joe Biden martedì prossimo? Lucio Caracciolo, fondatore e direttore di Limes, apre con Formiche.net la valigetta diplomatica del premier.

Cosa porta Draghi a Washington?

Porta un’Italia che si è schierata nettamente con l’America di fronte alla guerra russa e che sta armando in maniera non secondaria la resistenza ucraina.

Qual è la vera missione del premier?

Vorrà sondare cosa ha in mente Biden per l’immediato futuro e fino a che punto ci sono margini di trattativa per le sanzioni energetiche. Gli americani vogliono tagliare una volta per tutte il nesso di dipendenza dal gas russo, un piano che suscita più di qualche remora in Europa, non solo in Italia.

La ricerca di vie energetiche alternative nel Mediterraneo dà all’Italia un ruolo da protagonista?

La verità è che non sono vie immediate, ci vorranno diversi anni. Nel breve periodo non si può sostituire del tutto il gas russo. Lo dice anzitutto la Germania, offrendo all’Italia un cuscinetto politico non indifferente.

Il gas da sud non basta?

Ad oggi ci sono molte incognite. Parliamo di accordi di principio, peraltro con Paesi politicamente instabili. Una via praticabile nel medio periodo è quella del gas naturale liquefatto, ma servono i rigassificatori e in Italia la burocrazia non aiuta a preparare la transizione.

Il fattore Draghi conta nel pressing economico contro Mosca?

Sì, Draghi ha già contribuito alle sanzioni contro la banca centrale russa. Finora le più dolorose per il regime, che cerca di uscirne imponendo il pagamento del gas in rubli.

Mentre il premier sarà a Washington, in Italia la bolla politica e mediatica si divide sulla guerra. Questa ambiguità pesa sulla credibilità del Paese?

È un problema per la coerenza dell’azione governativa, agli americani interessa relativamente. Draghi ha una missione prioritaria: capire quali sono per Biden le condizioni per una trattativa che porti al cessate-il-fuoco e alla sospensione di una guerra destinata a durare a lungo.

La guerra rischia di allargarsi?

Sì e può succedere anche al di là della volontà americana. Quando il Segretario della Difesa Austin afferma che l’obiettivo è indebolire la Russia non è chiaro dove sia la linea rossa e se Washington ha mai messo in conto un cambio di regime, che in Russia corrisponde a un cambio di Stato.

Intanto Putin prepara la parata del 9 maggio. Cosa c’è da festeggiare?

Cercherà di presentare come una vittoria l’avanzata nel Donbas, ma è un bottino magro. I russi controllano l’autostrada, da Mosca si può arrivare in Crimea. Al lato della carreggiata però non hanno il controllo. E c’è un altro fattore da tenere in conto.

Quale?

Non vorrei essere nei panni dello Stato che dovrà occuparsi del Donbas. Un tempo fiore all’occhiello dell’industria sovietica, oggi è una regione arrugginita e devastata dai bombardamenti che hanno compromesso la macchina industriali. Gestirla richiede investimenti enormi, dubito che sia l’Ucraina che la Russia possano farsene garanti.

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